La stagione congressuale del Pd è entrata nel vivo. Dopo la presentazione dei programmi dei due candidati principali, sono scesi in campo i due leader più "pesanti" di quel partito, Veltroni e D'Alema, gli eterni dioscuri, oggi come ieri impegnati su fronti interni contrapposti. L'ex segretario apertamente a sostegno di Dario Franceschini e l'ex premier impegnatissimo a delineare il profilo, il campo di gara e la prospettiva politica di Pierluigi Bersani.
Proverò a non cedere alla tentazione, non solo provocata dai giornali, di leggere lo scontro congressuale come la prosecuzione di una contesa per interposti candidati, un po' perché ciò darebbe fastidio a chiunque fosse direttamente coinvolto in vicende analoghe, un po' perché effettivamente i due candidati sono in grado di proporsi in piena autonomia. Tuttavia, le opzioni politiche presentate nelle due interviste apparse sul Corriere della sera, a Veltroni, e sull'Unità, a D'Alema, hanno un peso rilevante. Dentro il Pd e fuori di esso. Veltroni, riaprendo la strada di un suo personale impegno diretto, rimodella il concetto di "vocazione maggioritaria" del Pd. Dice che, in prospettiva, una moderna alleanza di riformisti si basa su un doppio livello di interazione: il primo con le forze che fanno riferimento a Vendola, ai socialisti e ai radicali; il secondo, previa verifica programmatica, con l'Udc e Di Pietro.
Vorrei dire, prima ancora di elaborare una lettura più articolata, che considero positiva questa apertura di ragionamento. In primo luogo perché non ammicca a generici "uomini e donne di sinistra", ma si prende la briga di nominarli e di riconoscerli come soggetti organizzati. In secondo luogo perché si mette fine alla stagione dell'autosufficienza, derubricando la "vocazione maggioritaria" a una più comprensibile e ragionevole idea di alleanze per il governo del paese. Il fulcro del ragionamento è che il Pd non può essere di sinistra, ma può certamente essere più radicale nelle scelte etiche e ambientali (credo che Veltroni stia amaramente riflettendo sul carattere ondivago della sua direzione dopo la sconfitta delle politiche), e che quindi necessita di una alleanza con la sinistra. Ricordo bene il mantra della campagna del 2008: il Pd esaurisce gli spazi a sinistra e, al più, deve allearsi con una parte di elettorato che si ritrova nelle campagne dipietriste (confltto d'interessi, questione morale). Lo schema è cambiato. Il nucleo della proposta di Veltroni è quello di riassorbire quell'elettorato che, in misura consistente, ha scelto proprio Di Pietro sui temi del conflitto d'interesse e della questione morale, riconoscendo l'esistenza di una soggettività politica della sinistra. E' senza dubbio un ragionamento moderato, che si propone di rintracciare una versione inedita di quel "nuovismo" che ha sempre caratterizzato l'azione politica di Veltroni.
D'Alema fa certamente un discorso più "di sinistra". Ancora più nettamente lo fa Bersani, come è apparso chiaramente nell'ultimo intervento alla conferenza programmatica della Cgil, dove ha parlato di insediamento sociale, della fine dell'idea che dalla crisi si possa uscire con un "pensiero unico", della necessità di restituire dignità al confronto tra le parti sociali, in primo luogo con il sindacato dei lavoratori. Si tratta di categorie che, per tanti di noi, sono più note e, come osservava su queste pagine Rina Gagliardi, più riconoscibili. Eppure, nell'intervista all'Unitàho scorto una propensione di D'Alema a concepire il Pd come una forza che incorpora la sinistra. Non, ovviamente, le sue forme organizzate, ma la sua storia (i 150 anni di storia alle spalle) e la sua funzione sociale. La partita del governo si può giocare in un paese, afferma
D'Alema, che, anche nelle ultime elezioni europee, non ha dato la maggioranza assoluta alle forze al governo. Si può rivincere sulla base di nuove alleanze, con l'Udc che allarga lo schema del più recente centrosinistra (quello dell'Unione n.d.r.), in una condizione di urgente accelerazione dell'alternanza.
Ritengo che entrambi gli approcci contengano, per quanto ci riguarda, lezioni interessanti. La prima è che il Pd è ben lungi dall'essere una forza stabile, non tanto per il confronto aspro tra gruppi dirigenti e nella propria base, quanto per la funzione che esso dovrà necessariamente assolvere nella politica italiana. La seconda è che, per le forze della sinistra, nessuna delle due opzioni è ostativa al dispiegarsi di una piena e compiuta iniziativa politica (poiché nessuno propone annessioni o steccati pregiudiziali) nel campo della ricerca di un'alternativa a Berlusconi. La terza è che, nonostante le autorevoli argomentazioni che vanno in senso opposto, non sia per niente utile (qualora fosse possibile) ragionare sull'opportunità di entrare nel Pd. E ancora più inutile, aggiungerei, è lo stare fuori da quel partito facendo il tifo per l'una o l'altra opzione. Ma vi immaginate, al di là delle suggestioni, quale sarebbe l'agibilità politica reale dentro un'organizzazione siffatta?
Credo invece che il congresso del Pd ci ponga ancora di più davanti alle nostre responsabilità. Non possiamo invocare più l'errore altrui. Occorre che ci si dia da fare per costruire una sinistra tale da rappresentare una valida opzione politica ed elettorale. Una sinistra piena di persone che partecipano direttamente. Un a sinistra popolare. Una sinistra che non si faccia ipnotizzare da ciò che accade al di fuori di essa, come quando, più o meno coscientemente, propone di aspettare di vedere come finirà il congresso del Pd per decidere da che parte andare.
Bisogna definire il nostro profilo, la nostra personalità politica, i nostri strumenti di rappresentanza. Bisogna, insomma, decidere di fare la nostra parte. E di farla presto.
Proverò a non cedere alla tentazione, non solo provocata dai giornali, di leggere lo scontro congressuale come la prosecuzione di una contesa per interposti candidati, un po' perché ciò darebbe fastidio a chiunque fosse direttamente coinvolto in vicende analoghe, un po' perché effettivamente i due candidati sono in grado di proporsi in piena autonomia. Tuttavia, le opzioni politiche presentate nelle due interviste apparse sul Corriere della sera, a Veltroni, e sull'Unità, a D'Alema, hanno un peso rilevante. Dentro il Pd e fuori di esso. Veltroni, riaprendo la strada di un suo personale impegno diretto, rimodella il concetto di "vocazione maggioritaria" del Pd. Dice che, in prospettiva, una moderna alleanza di riformisti si basa su un doppio livello di interazione: il primo con le forze che fanno riferimento a Vendola, ai socialisti e ai radicali; il secondo, previa verifica programmatica, con l'Udc e Di Pietro.
Vorrei dire, prima ancora di elaborare una lettura più articolata, che considero positiva questa apertura di ragionamento. In primo luogo perché non ammicca a generici "uomini e donne di sinistra", ma si prende la briga di nominarli e di riconoscerli come soggetti organizzati. In secondo luogo perché si mette fine alla stagione dell'autosufficienza, derubricando la "vocazione maggioritaria" a una più comprensibile e ragionevole idea di alleanze per il governo del paese. Il fulcro del ragionamento è che il Pd non può essere di sinistra, ma può certamente essere più radicale nelle scelte etiche e ambientali (credo che Veltroni stia amaramente riflettendo sul carattere ondivago della sua direzione dopo la sconfitta delle politiche), e che quindi necessita di una alleanza con la sinistra. Ricordo bene il mantra della campagna del 2008: il Pd esaurisce gli spazi a sinistra e, al più, deve allearsi con una parte di elettorato che si ritrova nelle campagne dipietriste (confltto d'interessi, questione morale). Lo schema è cambiato. Il nucleo della proposta di Veltroni è quello di riassorbire quell'elettorato che, in misura consistente, ha scelto proprio Di Pietro sui temi del conflitto d'interesse e della questione morale, riconoscendo l'esistenza di una soggettività politica della sinistra. E' senza dubbio un ragionamento moderato, che si propone di rintracciare una versione inedita di quel "nuovismo" che ha sempre caratterizzato l'azione politica di Veltroni.
D'Alema fa certamente un discorso più "di sinistra". Ancora più nettamente lo fa Bersani, come è apparso chiaramente nell'ultimo intervento alla conferenza programmatica della Cgil, dove ha parlato di insediamento sociale, della fine dell'idea che dalla crisi si possa uscire con un "pensiero unico", della necessità di restituire dignità al confronto tra le parti sociali, in primo luogo con il sindacato dei lavoratori. Si tratta di categorie che, per tanti di noi, sono più note e, come osservava su queste pagine Rina Gagliardi, più riconoscibili. Eppure, nell'intervista all'Unitàho scorto una propensione di D'Alema a concepire il Pd come una forza che incorpora la sinistra. Non, ovviamente, le sue forme organizzate, ma la sua storia (i 150 anni di storia alle spalle) e la sua funzione sociale. La partita del governo si può giocare in un paese, afferma
D'Alema, che, anche nelle ultime elezioni europee, non ha dato la maggioranza assoluta alle forze al governo. Si può rivincere sulla base di nuove alleanze, con l'Udc che allarga lo schema del più recente centrosinistra (quello dell'Unione n.d.r.), in una condizione di urgente accelerazione dell'alternanza.
Ritengo che entrambi gli approcci contengano, per quanto ci riguarda, lezioni interessanti. La prima è che il Pd è ben lungi dall'essere una forza stabile, non tanto per il confronto aspro tra gruppi dirigenti e nella propria base, quanto per la funzione che esso dovrà necessariamente assolvere nella politica italiana. La seconda è che, per le forze della sinistra, nessuna delle due opzioni è ostativa al dispiegarsi di una piena e compiuta iniziativa politica (poiché nessuno propone annessioni o steccati pregiudiziali) nel campo della ricerca di un'alternativa a Berlusconi. La terza è che, nonostante le autorevoli argomentazioni che vanno in senso opposto, non sia per niente utile (qualora fosse possibile) ragionare sull'opportunità di entrare nel Pd. E ancora più inutile, aggiungerei, è lo stare fuori da quel partito facendo il tifo per l'una o l'altra opzione. Ma vi immaginate, al di là delle suggestioni, quale sarebbe l'agibilità politica reale dentro un'organizzazione siffatta?
Credo invece che il congresso del Pd ci ponga ancora di più davanti alle nostre responsabilità. Non possiamo invocare più l'errore altrui. Occorre che ci si dia da fare per costruire una sinistra tale da rappresentare una valida opzione politica ed elettorale. Una sinistra piena di persone che partecipano direttamente. Un a sinistra popolare. Una sinistra che non si faccia ipnotizzare da ciò che accade al di fuori di essa, come quando, più o meno coscientemente, propone di aspettare di vedere come finirà il congresso del Pd per decidere da che parte andare.
Bisogna definire il nostro profilo, la nostra personalità politica, i nostri strumenti di rappresentanza. Bisogna, insomma, decidere di fare la nostra parte. E di farla presto.
di Gennaro Migliore