lunedì 31 agosto 2009

Le aperture a sinistra di Veltroni e D'Alema


La stagione congressuale del Pd è entrata nel vivo. Dopo la presentazione dei programmi dei due candidati principali, sono scesi in campo i due leader più "pesanti" di quel partito, Veltroni e D'Alema, gli eterni dioscuri, oggi come ieri impegnati su fronti interni contrapposti. L'ex segretario apertamente a sostegno di Dario Franceschini e l'ex premier impegnatissimo a delineare il profilo, il campo di gara e la prospettiva politica di Pierluigi Bersani.
Proverò a non cedere alla tentazione, non solo provocata dai giornali, di leggere lo scontro congressuale come la prosecuzione di una contesa per interposti candidati, un po' perché ciò darebbe fastidio a chiunque fosse direttamente coinvolto in vicende analoghe, un po' perché effettivamente i due candidati sono in grado di proporsi in piena autonomia. Tuttavia, le opzioni politiche presentate nelle due interviste apparse sul Corriere della sera, a Veltroni, e sull'Unità, a D'Alema, hanno un peso rilevante. Dentro il Pd e fuori di esso. Veltroni, riaprendo la strada di un suo personale impegno diretto, rimodella il concetto di "vocazione maggioritaria" del Pd. Dice che, in prospettiva, una moderna alleanza di riformisti si basa su un doppio livello di interazione: il primo con le forze che fanno riferimento a Vendola, ai socialisti e ai radicali; il secondo, previa verifica programmatica, con l'Udc e Di Pietro.

Vorrei dire, prima ancora di elaborare una lettura più articolata, che considero positiva questa apertura di ragionamento. In primo luogo perché non ammicca a generici "uomini e donne di sinistra", ma si prende la briga di nominarli e di riconoscerli come soggetti organizzati. In secondo luogo perché si mette fine alla stagione dell'autosufficienza, derubricando la "vocazione maggioritaria" a una più comprensibile e ragionevole idea di alleanze per il governo del paese. Il fulcro del ragionamento è che il Pd non può essere di sinistra, ma può certamente essere più radicale nelle scelte etiche e ambientali (credo che Veltroni stia amaramente riflettendo sul carattere ondivago della sua direzione dopo la sconfitta delle politiche), e che quindi necessita di una alleanza con la sinistra. Ricordo bene il mantra della campagna del 2008: il Pd esaurisce gli spazi a sinistra e, al più, deve allearsi con una parte di elettorato che si ritrova nelle campagne dipietriste (confltto d'interessi, questione morale). Lo schema è cambiato. Il nucleo della proposta di Veltroni è quello di riassorbire quell'elettorato che, in misura consistente, ha scelto proprio Di Pietro sui temi del conflitto d'interesse e della questione morale, riconoscendo l'esistenza di una soggettività politica della sinistra. E' senza dubbio un ragionamento moderato, che si propone di rintracciare una versione inedita di quel "nuovismo" che ha sempre caratterizzato l'azione politica di Veltroni.
D'Alema fa certamente un discorso più "di sinistra". Ancora più nettamente lo fa Bersani, come è apparso chiaramente nell'ultimo intervento alla conferenza programmatica della Cgil, dove ha parlato di insediamento sociale, della fine dell'idea che dalla crisi si possa uscire con un "pensiero unico", della necessità di restituire dignità al confronto tra le parti sociali, in primo luogo con il sindacato dei lavoratori. Si tratta di categorie che, per tanti di noi, sono più note e, come osservava su queste pagine Rina Gagliardi, più riconoscibili. Eppure, nell'intervista all'Unitàho scorto una propensione di D'Alema a concepire il Pd come una forza che incorpora la sinistra. Non, ovviamente, le sue forme organizzate, ma la sua storia (i 150 anni di storia alle spalle) e la sua funzione sociale. La partita del governo si può giocare in un paese, afferma
D'Alema, che, anche nelle ultime elezioni europee, non ha dato la maggioranza assoluta alle forze al governo. Si può rivincere sulla base di nuove alleanze, con l'Udc che allarga lo schema del più recente centrosinistra (quello dell'Unione n.d.r.), in una condizione di urgente accelerazione dell'alternanza.
Ritengo che entrambi gli approcci contengano, per quanto ci riguarda, lezioni interessanti. La prima è che il Pd è ben lungi dall'essere una forza stabile, non tanto per il confronto aspro tra gruppi dirigenti e nella propria base, quanto per la funzione che esso dovrà necessariamente assolvere nella politica italiana. La seconda è che, per le forze della sinistra, nessuna delle due opzioni è ostativa al dispiegarsi di una piena e compiuta iniziativa politica (poiché nessuno propone annessioni o steccati pregiudiziali) nel campo della ricerca di un'alternativa a Berlusconi. La terza è che, nonostante le autorevoli argomentazioni che vanno in senso opposto, non sia per niente utile (qualora fosse possibile) ragionare sull'opportunità di entrare nel Pd. E ancora più inutile, aggiungerei, è lo stare fuori da quel partito facendo il tifo per l'una o l'altra opzione. Ma vi immaginate, al di là delle suggestioni, quale sarebbe l'agibilità politica reale dentro un'organizzazione siffatta?
Credo invece che il congresso del Pd ci ponga ancora di più davanti alle nostre responsabilità. Non possiamo invocare più l'errore altrui. Occorre che ci si dia da fare per costruire una sinistra tale da rappresentare una valida opzione politica ed elettorale. Una sinistra piena di persone che partecipano direttamente. Un a sinistra popolare. Una sinistra che non si faccia ipnotizzare da ciò che accade al di fuori di essa, come quando, più o meno coscientemente, propone di aspettare di vedere come finirà il congresso del Pd per decidere da che parte andare.
Bisogna definire il nostro profilo, la nostra personalità politica, i nostri strumenti di rappresentanza. Bisogna, insomma, decidere di fare la nostra parte. E di farla presto.
di Gennaro Migliore

Brunetta: bilancio del primo anno da ministro della Funzione Pubblica


Dopo più di un anno dalla vittoria elettorale dell’attuale maggioranza è possibile tracciare il bilancio dell’operato dei ministri in carica. Proviamo a vedere a cosa hanno portato, o stanno portando, le riforme del ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta. La produzione normativa, considerando che è passato poco più di un anno dall’assunzione dell’incarico, è, ainoi, corposa e ha colpito con drastici giri di vite praticamente ogni settore del pubblico impiego. La cosiddetta “circolare Brunetta” volta a combattere l’assenteismo e i poliziotti panzoni, la riforma delle pensioni per le donne volta a combattere… le pensioni per le donne e le norme sulla trasparenza che stanno portando dei risultati non proprio cristallini.

CIRCOLARE BRUNETTA
È in una circolare diffusa il 26 giugno 2008 la nuova sfida di Renato Brunetta all’assenteismo. Tutte le amministrazioni pubbliche devono sottoporre i propri lavoratori a visita medica fiscale anche nel caso di assenza di un solo giorno per malattia. Le nuove norme sono subito operative e valgono anche per le assenze già avvenute dal 26 giugno scorso in poi (data in cui il decreto 112 è entrato in vigore) secondo quanto riportato nella circolare firmata oggi dal ministro della Funzione pubblica.
Nel giro di vite vanno ricordate anche le eventuali decurtazioni dello stipendio. Il documento stabilisce che il taglio della retribuzione «si applica ad ogni evento di malattia, a prescindere dalla durata e riguarda i primi dieci giorni di assenza». Sulle modalità di certificazione della malattia, si specifica che il terzo «evento di malattia» nell’anno solare e le assenze superiori a dieci giorni debbono essere giustificati «con la presentazione all’amministrazione di un certificato medico rilasciato dalle strutture sanitarie pubbliche o dai medici convenzionati». La circolare fornisce poi indicazioni alle amministrazioni sull’incidenza delle assenze dal servizio «ai fini della distribuzione dei fondi per la contrattazione collettiva», ribadendo i principi in materia di premialità e chiarendo che «comunque nessun automatismo è consentito nella distribuzione delle somme». Viene posto in particolare l’accento sulla necessità di valutare l’apporto individuale ai fini di attribuire premi di produttività, di risultato e gli incentivi.
In nome di un aumento di produttività vengono quindi cancellati con un colpo di spugna diritti conquistati dai sindacati in decenni di storia.

RIFORMA DELLE PENSIONI PER LE DONNE
La riforma delle pensioni, con un innalzamento graduale fino a 65 anni dell’ età pensionabile per le donne, sembra ormai in dirittura d’ arrivo.
Fannulloni anche da “vecchi”. L’ossessione del ministro Brunetta per gli scansafatiche questa volta prende di mira chi avrebbe diritto ad andare in pensione. Soprattutto le donne. Quelle che magari è una vita che fanno tre lavori – i figli, la casa, i genitori anziani – e che andando in pensione qualche anno prima diventano un sostituto eccellente di quel welfare che non c’è. Ma per Brunetta chi non timbra il cartellino tutti i giorni, chi non ha la vita scandita dal ruotare di un tornello, va punito senza scrupoli. Il ministro è sconcertato «dallo spaventosamente basso tasso di occupazione italiano». Ma anziché pensare ai giovani, a quelli che un lavoro lo vorrebbero e non riescono a trovarlo, secondo lui «conviene» di più recuperare alla vita lavorativa attiva la cosiddetta terza età. Ha già calcolato che si recupererebbe un 10% di lavoratori, «significa 2-3 milioni di posti di lavoro in più, il che vuole dire incrementare il gettito fiscale e il Pil del Paese». L'invecchiamento attivo, sostiene ancora Brunetta, «è un bene pubblico e come tale occorre farne rilevare la convenienza e sostenerlo con gli opportuni incentivi, anche fiscali, e disincentivare le uscite precoci dal lavoro». Insomma è bene «non sprecare questo enorme serbatoio che sono gli anziani, la terza età, perché al di là di tutto conviene economicamente».
Brunetta pensa soprattutto alle donne e prova a buttarla addirittura sull’eguaglianza: «Le donne – spiega – sono due volte discriminate. Sono discriminate nella carriera per l'interruzione legata alla fase riproduttiva. Sono discriminate nelle pensioni più basse legate all'aver smesso di lavorare prima».

NORME SULLA TRASPARENZA
Le nuove norme sulla trasparenza, imporrebbero a tutte le pubbliche amministrazioni di pubblicare su internet stipendi e curricula dei dirigenti insieme ai tassi di assenza del personale.
Dalle parti della politica, quasi tutti hanno scelto di seguire il motto del segretario democristiano, inondando i siti ministeriali di dichiarazioni sulla «casa di vetro» della pubblica amministrazione. Di dati, però, nemmeno l'ombra.
Eppure la norma non lascia spazio a interpretazioni soggettive. In vigore dal 4 luglio (è l'articolo 21 della legge 69/2009), obbliga tutte le pubbliche amministrazioni centrali e locali a mettere sul sito buste paga, curricula, e-mail e recapiti telefonici dei dirigenti, mentre per i dipendenti sono richiesti i tassi di assenza mensili, divisi per ufficio. La prima risposta degli uffici pubblici è stata il silenzio (come mostrato sul Sole 24 Ore del 13 luglio), e ha spinto il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta a scrivere una circolare-lampo per spingere i recalcitranti (se n'è dato conto sul Sole del 18 luglio): tutti i dati devono essere online entro luglio, ha chiarito il ministro, e per evitare applicazioni furbe ha precisato che gli stipendi indicati devono essere quelli totali, con la specifica delle voci che li compongono, i tassi di assenza vanno aggiornati ogni mese e il tutto deve essere bene in evidenza, nell'home page del sito istituzionale.
Macché. Il secondo affondo ha impressionato qualche amministratore locale (si veda l'articolo a fianco), ma nei palazzi della politica non ha smosso quasi nessuno.
Chi vuol vedere un'attuazione abbastanza fedele delle regole sulla trasparenza, oltre al sito di Palazzo Vidoni (e ci mancherebbe altro) ha una sola destinazione alternativa: il ministero dell'Economia. Gli uomini di Tremonti hanno preso sul serio i nuovi obblighi, il dossier trasparenza è presente in home page e all'interno offre le informazioni su stipendi, recapiti e assenze. Il puzzle, certo, non è completo, perché mancano ancora i dirigenti più alti e dei premi di risultato si fa un accenno fugace in nota (in realtà andrebbero indicati gli importi del 2008), ma rispetto a quello che (non) si vede negli altri ministeri il risultato è egregio.
Il ministero per la semplificazione normativa, per esempio, spiega che «trasparenza, accessibilità e qualità della regolazione» sono le stelle polari del lavoro di Roberto Calderoli, mentre il ministero della Giustizia va sul solenne e declama a caratteri grandi in home page: «Percorsi chiari e precisi: un tuo diritto». Sarà, ma dell'operazione trasparenza non c'è traccia.
In tanti, invece, riempiono i siti di tabelle e documenti, che però all'atto pratico travisano lo spirito della norma e mancano l'obiettivo della trasparenza. Il caso più classico, che torna dal Viminale alle Infrastrutture, dalle Politiche agricole ai Beni culturali, è quello delle "tabelle anonime". I prospetti tracciano l'identikit delle buste paga delle varie categorie dirigenziali, ma non ne indicano i legittimi proprietari (in qualche caso l'elenco è in altre tabelle, spesso invece manca del tutto). Applicare sì, ma non troppo, anche se tutta questa cautela mostra un'altra delle abitudini che Brunetta vorrebbe cancellare dagli uffici pubblici. Il ministero delle Infrastrutture, per esempio, informa che tutti i dirigenti di fascia D (sono 17) guadagnano 140.415 euro, di cui 8.317,93 sono il premio di risultato. In ogni fascia, tutti i dirigenti hanno un identico premio di risultato, e lo stesso accade alle Politiche agricole e in tanti altri ministeri. La valutazione individuale può attendere.
Le tabelle anonime non sono l'unica forma di reticenza. Il ministero della Gioventù parla solo dello staff del ministro, e indica la retribuzione accessoria di capo di gabinetto, vice e capo ufficio legislativo, spiegando che per la parte «fondamentale» queste persone conservano il trattamento economico di provenienza; quale sia, però, lo sanno solo i diretti interessati.
Non dimentichiamo poi la definizione scientifica e azzeccata, data dal ministro, del movimento studentesco nato in risposta alle leggi della riforma Gelmini, e degli studenti che ne fanno parte… “quelli li sono guerriglieri.”

domenica 30 agosto 2009

Afghanistan: Offensiva Talebani, presa Kandahar


Diverse fonti di intelligence occidentali segnalano nelle ultime ore che la più grande città nel sud dell'Afghanistan e feudo dell'etnia Pastoum, Kandahar, sarebbe caduta di nuovo sotto il completo controllo dei talebani. Nelle scorse settimane le forze alleate avevano cercato a più riprese di conquistare la città facendo piccoli passi avanti, tutti vanificati dalla massiccia contro-offensiva talebana. Se la notizia venisse confermata sarebbe un colpo durissimo alla politica del Presidente Obama che tanto aveva investito (in uomini e mezzi) proprio nella conquista della città bastione dei talebani.
La guerra in Afghanistan continua a battere mensilmente i tragici record dei morti in battaglia per gli Stati Uniti.
Il mese in corso è stato il peggiore anche per i soldati della Nato che con gli attentati degli ultimi giorni hanno visto salire a 295 i morti tra le forze alleate dall'inizio dell'anno, facendo del 2009 l'anno più nero degli otto passati in battaglia. Secondo gli esperti l'incremento nel conto dei caduti è dovuto in particolare ai maggiori rinforzi inviati dalla Casa Bianca negli ultimi mesi che hanno fatto salire a 57.000 il numero di soldati americani in Afghanistan.

In Giappone vince il PD


Quando i maggiori leader di un partito faticano a radunare cento persone per assistere ai loro comizi, non è necessario leggere i sondaggi per capire che è in arrivo non una sconfitta, ma una batosta di proporzioni enormi. Domani quei leader troveranno conferma ai loro incubi politici nei risultati che quasi certamente emergeranno dallo spoglio delle schede. Gli istituti demoscopici giapponesi prevedono un crollo del partito di governo, i Liberaldemocratici, sino al 18% dei consensi. I loro avversari del Partito democratico ne otterrebbero il doppio, balzando sino al 36%, e conquistando un’amplissima maggioranza dei seggi in Parlamento, intorno ai due terzi del totale.La lunga crisi della formazione che ha letteralmente dominato la scena politica nazionale dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, giunge a compimento. E molti osservatori si stupiscono che a questo esito non si sia arrivati prima. Il colpo di grazia alle residue speranze di recupero elettorale per il governo guidato da Taro Aso, è arrivato ieri con la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione. Nel mese di luglio la parcentuale dei senza lavoro in Giappone è stata del 5,7%. Mai si era arrivati così in alto negli ultimi sessanta anni. L’incremento ha avuto un ritmo galoppante da dodici mesi in qua. Un milione di persone è andato ad aggiungersi ai due e mezzo che venivano registrati come disoccupati sino all’estate scorsa. Due giorni fa Aso ed i suoi avevano tentato disperatamente di richiamare l’attenzione dei connazionali sui primi timidi segni di ripresa economica, ingigantendo l’importanza del rialzo (0,9%) del prodotto lordo fra aprile e giugno, dopo tanti mesi di cali. Ma i giapponesi sperimentano nella loro vita quotidiana il fallimento delle scelte governative, e sono più disgustati che delusi dagli scandali pubblici e privati di cui sono stati protagonisti molti dirigenti liberaldemocratici negli ultimi anni. Particolarmente indecorosa fu l’apparizione di Shoichi Nakagawa ubriaco ad una conferenza stampa a Roma dopo il vertice dei ministri delle finanze dei Paesi del G7. Nakagawa fu costretto alle dimissioni. Ma non era che una delle tante gaffe e brutte figure inanellate da importanti membri degli ultimi governi che si sono succeduti al ritmo di uno all’anno dal 2006 in avanti. Con il controllo degli apparati burocratici e gli stretti rapporti con il mondo degli affari, il partito liberaldemocratico è riuscito a monopolizzare la vita politica nazionale per molti decenni. Fin che l’economia tirava, gli elettori hanno spesso chiuso un occhio sulla corruzione, sulle tangenti, e sulle faide di potere interne al partito. Ora il limite di tolleranza sembra essere stato superato e la gente vuole cambiare.Cambiamento è appunto lo slogan costantemente sbandierato in campagna elettorale dal Partito democratico, principale gruppo dell’opposizione. Il suo leader Yukio Hatoyama, 62 anni, appartiene ad una famiglia che viene talvolta paragonata al clan americano dei Kennedy, per la concezione della politica come missione. Ma non tutti gli osservatori sono d’accordo nel giudizio così benevolo sugli Hatoyamna, e ricordano come il nonno di Yukio, Ichiro, sia stato epurato a suo tempo dal generale americano MacArthur per connivenza con il regime dittatoriale del Sol Levante che portò la guerra in tutta l’Asia. Agli elettori i Democratici si propongono come una forza che intende combattere gli sprechi, limitare lo strapotere dei burocrati, promuovere politiche in favore delle famiglie. Hanno anche promesso di abolire alcune impopolari misure varate dai predecessori, come la soprattassa sulla benzina o i pedaggi autostradali. In politica estera propendono per una maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti, ma rifuggono dalle tentazioni nazionaliste e militariste in cui sono caduti alcuni degli ultimi primi ministri e ministri della Difesa. «Devo ammettere che il governo non ha prestato sufficiente attenzione alle disuguaglianze sociali ed alla povertà», ha riconosciuto il premier Aso, promettendo ai concittadini che d’ora in avanti agirà diversamente. Scuse tardive, progetti di rinnovamento troppo vaghi per risultare credibili.
da L'Unità

sabato 29 agosto 2009

Bersani, nuova sinistra o grande centro?

Sono state acquisite notizie secondo le quali sarebbe in atto da parte di alcuni esponenti politici la costituzione di un'alleanza di centro, avallata da alcuni esponenti ecclesiastici del Vaticano. Al finanziamento di tale "POLO" [sarebbe] tra gli altri interessat[o] il Pierluigi Bersani.
Questa citazione è tratta (pag.231) dal libro Vaticano s.p.a. di Gianluigi Nuzzi , edito da ChiareLettere. Il brano, nello specifico, riporta un'informativa riservata del comando generale della Gdf, che però viene considerata, qualche riga più in basso, poco veritiera (cioè, la fonte è confermata, ma non è confermato quanto descrive).

Ma "il Pierluigi Bersani", oggi candidato alla segreteria del PD, è così lontano dal "Grande Centro"? Sulla sua persona sono pronto a mettere la mano sul fuoco, come sulle sue capacità politiche. Ma temo che il progetto bersaniano, all'insegna di un PD che torna a fare la sinistra e lascia all'UDC o a chi per lei il compito di fare il centro, il tutto condito da un sistema proporzionale alla tedesca, finisca proprio per essere il miglior viatico per arrivare a quel "POLO" di cui si parla nell'informativa.

Stante il quadro politico attuale, solo de-berlusconizzato per decorrenza dei termini - diciamo - niente ostacolerebbe Casini dal rendere sistemica la sua politica dei due forni, che lo porta a stare un po' col centrodestra, un po' col centrosinistra. Al momento, visto che alle politiche scorse ha retto il bipolarismo, questo avviene solo a livello locale. Ma col proporzionale potrebbe estendersi anche al nazionale, con il centro a fare da ago della bilancia per la definizione dei governi, qualunque sia l'esito delle elezioni, e pronto ad allearsi con le forze disponibili, per stare sempre e comunque nella maggioranza. Inutile ricordare come un tale potere possa portare molti, molti consensi dalle parti di Casini. Se non è il Grande Centro, poco ci manca, insomma.

di Claudio Alberti

Berlusconi fa causa a Repubblica


Nuovo attacco di Silvio Berlusconi a Repubblica. Il premier va dai giudici e chiede un risarcimento danni per un milione di euro al Gruppo L'Espresso. A suo giudizio le domande formulate il 26 giugno da Giuseppe D'Avanzo sono "diffamatorie". Per la prima volta nella storia dell'informazione italiana gli interrogativi di un giornale finiscono davanti a un tribunale civile.

La citazione in giudizio del presidente del Consiglio, firmata il 24 agosto, riguarda, oltre alle "dieci nuove domande" anche un articolo del 6 agosto dal titolo ""Berlusconi ormai ricattabile" media stranieri all'attacco: Le Nouvel Observateur teme infiltrazioni della mafia russa", un servizio che riportava i giudizi della stampa di tutto il mondo sul caso italiano. Invitati a comparire al Tribunale di Roma Giampiero Martinotti, autore del pezzo contestato, il direttore responsabile di Repubblica Ezio Mauro e il gruppo L'Espresso.

Oltre a Repubblica, Berlusconi vuole querelare anche alcuni giornali stranieri: Ghedini ha detto all'agenzia di stampa britannica Reuters di avere proceduto legalmente contro giornali in Francia e Spagna e di aver chiesto ad avvocati britannici "di valutare, in accordo con le leggi dei loro Paesi, i casi più gravi di vera diffamazione". In particolare, le azioni legali riguardano Le Nouvel Observateur e il quotidiano spagnolo El Pais per aver pubblicato le foto degli ospiti del premier a Villa Certosa.

Al centro dell'iniziativa legale del presidente del Consiglio sono però le domande rivolte a Silvio Berlusconi, "ripetutamente pubblicate sul quotidiano La Repubblica" e "per più di sessanta giorni", come sottolineano i suoi avvocati. Si tratta, per il premier, di "domande retoriche" che "non mirano ad ottenere una risposta del destinatario, ma sono volte a insinuare nel lettore l'idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere". Domande alle quali il capo del governo non ha mai risposto, come noto. Per Berlusconi sono "palesemente diffamatorie" perché "il lettore è indotto a pensare che la proposizione formulata non sia interrogativa, bensì affermativa ed è spinto a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti".

L'esposizione del "Dr. Silvio Berlusconi, nato a Milano il 29 settembre 1936", inizia dall'articolo di Martinotti che da Parigi riporta i servizi della stampa estera dedicati al caso Berlusconi. Servizi quel giorno numerosi e scandalizzati, come sottolinea l'attacco del pezzo: ""Sesso, potere e menzogne": il titolo del Nouvel Observateur, in edicola oggi riassume alla perfezione la valanga di commenti della stampa estera sul nostro presidente del Consiglio. I giornali di tutto il mondo, di destra e di sinistra, moderati o progressisti, non sanno più come qualificare le gesta berlusconiane: si passa dalla "libidine geriatrica" (The Independent) a un capo del governo "graffiato dalla figlia" (Le Figaro), che "gli dà lezioni" (The Daily Telegraph), "gli fa la morale" (Elle) e che lo biasima con un "vergogna, papà!" (l'australiano News)".

Di quella cronaca, basata solo su citazioni testuali, è in particolare un articolo del settimanale francese Nouvel Observateur quello che ha fatto scattare la reazione di Berlusconi. L'autore Serge Raffy scrive sull'Observateur che "con lo scorrere delle rivelazioni, l'ipotesi di un'infiltrazione della mafia russa al vertice dello Stato italiano prende consistenza". E parla poi "di una registrazione che rischia di alimentare ancor più lo scandalo" che coinvolgerebbe Mara Carfagna e Mariastella Gelmini.

Secondo Berlusconi, Repubblica, "con l'espediente di riportare il contenuto del settimanale francese ha pubblicato ancora una volta - nel quadro della ben nota polemica di questi ultimi mesi - notizie non veritiere, riportando circostanze che in alcun modo corrispondono alla situazione di fatto e di diritto realmente esistente". Conclusione: "Il danno arrecato al Dr. Berlusconi è pertanto enorme" sia per il "ruolo del protagonista", sia perché la notizia è stata diffusa da "un quotidiano con ampia tiratura e diffusione e destinato ad un elevato numero di lettori". Da qui la richiesta di danni per un milione di euro oltre a una somma, da stabilire, "a titolo di riparazione".
La Repubblica

venerdì 28 agosto 2009

VIDEOCRACY - APPELLO A TUTTI I BLOGGER - Giornata di diffusione di massa

Come molti di voi ben sapranno, le televisioni si rifiutano di trasmettere il trailer del film Videocracy, ritenuto un'inammissibile critica al Governo.Possiamo continuare a piangerci addosso per ore, rimuginare su quanto sia ingiusto l'utilizzo di una censura dal sapore dittatoriale, evocare un equilibrio democratico e un pluralismo informativo degno d'una nazione europea. Possiamo, ma sarebbe inutile e fine a se stesso.Sapete meglio di me che i lettori dei blog (ed è un discorso che mantiene la sua valenza sia per blog "famosi" sia per quelli "meno famosi") sono per la stragrande maggioranza lettori di nicchia, persone che ricercano in consapevolezza fonti genuine d'informazione muovendosi da una base culturale abbastanza solida, e che per questo motivo le nostre lamentele troverebbero più applausi che echi.Per tanto invito tutti i volenterosi a compiere qualcosa di simile a quello che è stato messo in atto il 14 Luglio dal blog "Diritto alla Rete".Giovedì 3 Settembre tutti i blogger sono invitati a creare un post con il titolo "Videocracy - 4 Settembre" che abbia come testo un breve commento del blogger e il video del trailer, oltre che l'indicazione delle sale più vicine dove potersi recare per vedere il film.(mi auguro che nei commenti a questo post si apra una discussione per decidere migliorie e valutare suggerimenti per il buon esito dell'iniziativa)

giovedì 27 agosto 2009

Tremonti: bilancio del primo anno da ministro dell'economia


Giulio Tremonti, dopo diciotto mesi di governo di centrosinistra, è tornato a occupare la poltrona del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ovvero il dicastero chiave, specialmente in un momento di crisi come quella che stiamo vivendo. Dopo un anno pare il momento di tracciare un primo bilancio del suo lavoro, con un occhio di riguardo ai provvedimenti (promossi o approvati da Tremonti) che più sono stati pubblicizzati sui media italiani. Va detto, in primo luogo, che Giulio Tremonti ha più volte ricordato di essere riuscito a prevedere la crisi finanziaria ed economica mondiale. Ed è vero. Tuttavia molti provvedimenti non hanno tradotto tali previsioni in misure adeguate a contrastare la crisi.

1) Abolizione dell’ICI;
Il primo intervento degno di nota è stato l’abolizione dell’ICI sulla prima casa. Per le fasce media e bassa della popolazione l’ICI era già stata abolita dal precedente governo di Romano Prodi. L’abolizione dell’ICI effettuata dal governo di Berlusconi, invece, ha riguardato i contribuenti più ricchi. Un provvedimento evitabile, considerando il sostanziale abbandono di una politica fiscale redistributiva e soprattutto il buco di tre miliardi lasciato nelle casse dei comuni italiani, aggravato dal fatto che Tremonti aveva previsto la crisi economica, che comporta naturalmente un aumento del fabbisogno statale (e infatti Tremonti ha previsto, entro la legislatura, un aumento della pressione fiscale, al contrario di quanto affermato in campagna elettorale).

2) Detassazione straordinari e regole d’impresa;
Il provvedimento di abolizione dell’ICI fu approvato insieme alla detassazione degli straordinari. Un altro provvedimento contraddittorio e inutile visto che, sempre a causa della crisi, le imprese hanno cominciato a tagliare il lavoro, non ad aumentarlo. Tremonti, poi, aveva giustamente ricordato che la finanza non poteva rimanere senza regole. Ma non è passato dalle parole ai fatti: il reato di falso in bilancio, depenalizzato nel corso del governo Berlusconi II, non è stato reintrodotto. Si tratta della misura più elementare per punire chi fornisce informazioni sbagliate al mercato, un incentivo, dunque, a non rispettare le regole. È inoltre un provvedimento che rende il mercato italiano meno robusto e appetibile: le aziende oneste e quelle straniere, infatti, sono restie ad investire in un Paese dove le aziende disoneste possono godere di un vantaggio ingiusto (quello di potere falsificare le informazioni). In particolare le aziende straniere non possono giocare sporco come le aziende disoneste italiane, visto che altrimenti falsificherebbero anche i bilanci all’estero, dove questo reato è punito assai severamente. A proposito di regole per l’impresa, il governo ha approvato di recente delle normative volte al consolidamento dei gruppi di controllo delle aziende quotate, per evitare acquisizioni ostili in un momento in cui le azioni viaggiano ai minimi. Da notare che però il nostro mercato finanziario presenta già una debolissima contendibilità aziendale e pertanto questo provvedimento è un «un passo indietro gravissimo per il market for corporate control», come ha detto pure l’Autorità garante della concorrenza. Sempre in tema di finanza, Tremonti aveva fortemente attaccato gli strumenti derivati, il cui abuso ha certamente contribuito alla crisi. Anche qui la lungimiranza di Tremonti non si è tradotta in provvedimenti idonei. Il divieto dell’uso dei derivati negli enti locali (uso che ha creato un buco nei bilanci di molte amministrazioni) è stato deciso pochi mesi dopo l’abbandono di Tremonti nel 2006, dal governo Prodi, con la finanziaria 2007 e soprattutto quella del 2008, dopo aver notato che gli enti locali cascavano troppo spesso nelle clausole falsamente favorevoli proposte dalle banche [R. Artoni, Elementi di scienza delle finanze, Il Mulino, 2008].

3) Catania, Roma e i buchi nei bilanci comunali;
Sempre a proposito di enti locali, il ministero dell’Economia ha dato il via libera alla copertura del debito del comune di Catania, buco lasciato dall’amministrazione di Umberto Scapagnini, medico di Berlusconi. Simile provvedimento è stato approvato per il comune di Roma, oggi retto da Gianni Alemanno, in passato da Walter Veltroni. Normalmente le amministrazioni non virtuose (in particolare quelle del sud) vengono commissariate, ma in questi due casi il governo centrale è intervenuto a ricopertura per salvare le amministrazioni (di centrodestra), lanciando un segnale negativo, ovvero che i comuni possono dimenticare il patto di stabilità, visto che il governo interverrà a coprire i debiti contratti. È stato insomma introdotto un incentivo all’instabilità finanziaria, che in un Paese come l’Italia, pieno di debiti, non sembra essere adeguato.

4) Social card e Robin Hood Tax;
Uno dei provvedimenti più pubblicizzati è stata la carta acquisti (social card). Si trattava di una carta prepagata dallo Stato a favore delle famiglie più indigenti. Il denaro per le ricariche sarebbero provenuti dalla cosiddetta Robin Hood Tax, che avrebbe stornato i profitti di banche e petrolieri che, all’epoca, guadagnavano molto. Anche in questo caso, però, Tremonti non ha seguito le sue previsioni. A causa della crisi, infatti, il prezzo del petrolio è sceso fino a un terzo dai massimi, mentre le banche, lo sappiamo tutti, sono state le prime ad essere colpite dallo tsunami finanziario. Come risultato, solo una piccola parte delle social card previste sono state effettivamente attivate (circa il 40%).

5) Vendita di Alitalia;
Provvedimento assai pubblicizzato e più controverso è stato pure la vendita di Alitalia. La compagnia, giunta a perdere tre milioni al giorno, doveva essere venduta ad AirFrance-KLM nel 2008. Il cambio di governo, però, ha cambiato le carte in tavola: Alitalia deve rimanere italiana. Una cordata di imprenditori italiana rileva la parte buona di Alitalia, mentre quella cattiva (ovvero quella con i debiti) rimane allo Stato. Il saldo dell’operazione è negativo: il Tesoro si fa carico di un debito di tre miliardi di euro, senza considerare la rete di sicurezza per i dipendenti licenziati (secondo la stima di Tito Boeri, un altro miliardo sempre a carico dei contribuenti). Poche settimane dopo, AirFrance-KLM, che l’anno prima avrebbe rilevato Alitalia senza gravare sul bilancio pubblico italiano, rientra dalla finestra: grazie a un aumento di capitale, acquisisce il 25% della nuova Alitalia. Un giro più lungo (e più pesante per gli italiani) per arrivare allo stesso risultato. E al punto di partenza, visto che la nuova Alitalia è in difficoltà come quella vecchia.

Il primo anno di Tremonti, dunque, si conclude con una situazione abbastanza contraddittoria. Tutti questi provvedimenti, infatti, non hanno ridato regole certe alla finanza e hanno tolto risorse alle casse dello Stato, risorse che sarebbero tornate utili nella crisi pur prevista da Tremonti. Tuttavia, proprio nell’affrontare la crisi, l’inquilino di via XX settembre ha deciso per una linea attendista: la manovra anticrisi, infatti, è evidentemente irrisoria rispetto a quelle dei nostri partner internazionali, data l’intenzione dichiarata di difendere il bilancio pubblico (che, come diceva Ambra Colacicco su queste pagine, è giunto a livelli stratosferici, invertendo la tendenza ribassista, anche grazie alle politiche fin qui ricordate). Appare dunque evidente la doppiezza dell’azione tenuta finora da Tremonti.

La prossima sfida è il federalismo fiscale: di recente il Parlamento ha conferito una delega al governo per la stesura di una legge in materia. Una riforma fortemente voluta dalla Lega Nord, ma la delega prevede principi molto ampi e generali ed effetti, pertanto, imprevedibili. Giulio Tremonti, questa volta, ha preferito non fare previsioni.

Scritto da Giovanni De Mizio

Situazione disastrosa in Honduras


Dal 28 giugno passato, quando un commando militare ha prelevato in piena notte il presidente costituzionalmente eletto Manuel Zelaya dalla casa presidenziale per poi espellerlo in Costa Rica, il susseguirsi di violazioni dei diritti umani hanno prodotto una escalation di illegalità, violenza e repressione.

Gli Stati Uniti erano al corrente della volontà golpista, come ha dichiarato l’ambasciatore statunitense a Tegucigalpa, ma non hanno fatto nulla per impedirlo. L’idea del Presidente Zelaya di trasformare in aeroporto civile la famigerata base militare statunitense di Soto Cano, tristemente famosa negli anni ‘80 per l’appoggio ai “contras” anti-sandinisti, è stata senza dubbio uno dei fattori scatenanti del golpe.

Con questo colpo di Stato, realizzato dall’oligarchia locale, dal settore imprenditoriale, e dall’esercito dell’Honduras con l’appoggio della gerarchia della Chiesa Cattolica e dell’Opus Dei, si stanno rievocando i tempi bui degli anni ‘80, quando le FF.AA. si prestavano a reprimere ed eliminare qualunque iniziativa o movimento sociale a favore dei settori più poveri del Paese.
Come nel passato assistiamo tragicamente alla repressione violenta delle manifestazioni, con morti e feriti da colpi di arma da fuoco sparati dalle Forze Armate, esecuzioni extragiudiziali, sequestri e desaparecidos, minacce, arresti arbitrari, totale restrizione alla libertà di associazione, di espressione, di stampa, sospensione delle libertà individuali, instaurazione del coprifuoco.
Le testimonianze delle varie delegazioni internazionali che si sono recate nel Paese fin dai primi giorni successivi al colpo di Stato, tra cui una delegazione sindacale e quella della Rete Biregionale Europa, America Latina e Caraibi “Enlazando Alternativas”, raccontano di violazioni sistematiche e quotidiane di qualunque diritto.

Nonostante tutto, da più di un mese le forze democratiche e progressiste del paese manifestano in maniera massiccia e pacifica contro il colpo di Stato per chiedere il ritorno di Manuel Zelaya.

Le azioni diplomatiche messe in atto fino ad ora non sono sufficienti: la stessa designazione come “mediatore” del Presidente del Costa Rica, Oscar Arias, suggerita dalla Segretaria di Stato statunitense Hilary Clinton, è un processo che serve solo a dilatare nel tempo la ricerca di una soluzione. E’ un segnale negativo nei confronti di una palese violazione delle regole democratiche (così strenuamente “difese” in altri luoghi del mondo) come dimostrano le proposte inaccettabili avanzate fino ad oggi: elezioni anticipate senza la restituzione della carica al presidente costituzionale Manuel Zelaya e totale amnistia per i responsabili del colpo di Stato e dei successivi crimini.

Ciò che non si perdona a Manuel Zelaya è l’aver adottato iniziative sociali e progressiste, aver ripreso i rapporti diplomatici con Cuba, essersi unito ai governi progressisti che combattono le politiche neoliberiste associandosi all’Alternativa Bolivariana per i popoli delle Americhe e dei Carabi (ALBA), il progetto di cooperazione e integrazione continentale.

E imperdonabile la sua iniziativa di “chiedere al popolo”. Convocate elezioni legislative e municipali per il passato 28 giungo, Zelaya aveva proposto di mettere un’urna in più dove i cittadini avrebbero potuto pronunciarsi sulla convocazione di una Assemblea Costituente per il prossimo anno. Un’iniziativa appoggiata dalle firme di 400.000 cittadini honduregni, (tra cui le tre centrali sindacali, il Bloque Popular e molte organizzazioni sociali e politiche), ma osteggiata apertamente dai settori imprenditoriali, non solo locali, che temono un cambiamento nei loro privilegi e nella politica di sfruttamento delle risorse naturali del paese.

La decisione del presidente costituzionale Manuel Zelaya di elevare del 60% il salario minimo dei lavoratori è stato probabilmente l’ultimo elemento scatenante nella decisione di rimuoverlo con la forza. Non è un segreto che le imprese bananiere Chiquita e Dole si siano apertamente lamentate della proposta di Zelaya e quando il decreto sul salario minimo è stato approvato hanno chiesto e ottenuto l’appoggio dell’intero COHEP (Consejo Hondureño de la Empresa Privada), la stessa che oggi chiede che non vengano applicate sanzioni economiche al paese.

Sono invece queste ultime che, tra le altre, devono essere messe in atto: l’Unione Europea e i suoi Stati membri devono sospendere qualunque tipo di collaborazione politica, economica e commerciale con il governo di fatto di Roberto Micheletti.

Marijuana non più illegale in Argentina


La marijuana per uso personale non è più illegale in Argentina. Lo ha deciso la Corte Suprema, con una scelta che punta a combattere il traffico di droga controllato dalla criminalità organizzata in modo opposto rispetto ai soliti - e vani - inasprimenti delle sanzioni.
La Corte ha stabilito che è incostituzionale perseguire chi faccia un uso privato di marijuana.
Già la Colombia e il Messico hanno fatto scelte del genere, mentre Brasile ed Ecuador stanno valutando l'adozione di provvedimenti analoghi.
Molto "liberal" la motivazione della sentenza: "Ogni adulto è libero di decidere per la sua vita senza l'intervento dello Stato. Lo Stato non può stabilire cosa è morale e cosa non lo è".
La Chiesa e le associazioni dei familiari protestano
La vecchia impostazione che punta su divieti rivelatisi inutili è sostenuta dalle proteste della Chiesa e delle associazioni delle famiglie dei tossicodipendenti, preoccupate che la nuova legge farà aumentare il consumo di droghe, anzichè limitarlo, sulla base di uno studio che ha rivelato come in Argentina l'uso di stupefacenti fra la popolazione dai 12 ai 64 anni sia aumentato al 6 per cento nel 2006 da appena l'1,9 per cento di due anni prima.
Negli Usa nel maggio scorso la California di Arnold Schwarzenegger aveva dichiarato di star valutando la possibilità di legalizzare la marijuana e tassarne la coltivazione, il commercio e l'uso, provando così a rimpinguare le casse in sofferenza dell'amministrazione.
In Italia - inutile dirlo di questi tempi - il dibattito che dieci anni fa sembrava sul punto di decollare - è stato soffocato nella culla. Meglio tacere e subire i traffici illegali, che alimentano mafie e camorre varie.

mercoledì 26 agosto 2009

La Lega minaccia il Vaticano


È ancora scontro tra il Vaticano e la Lega sugli immigrati. A sollevare le polemiche la tragedia degli eritrei nel Canale di Sicilia e le successive dichiarazioni di esponenti del Carroccio e della Santa Sede.

In una dichiarazione diffusa alla stampa, monsignor Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti, è andato all'attacco contro il ministro Roberto Calderoli, accusandolo di aver usato parole «inaccettabili e offensive, quasi che io - si legge nel comunicato - sia responsabile della morte di tanti poveri esseri umani inghiottiti dalle acque del Mediterraneo».

All'editoriale dell'Avvenire, che aveva parlato di 'grottesche' accuse a monsignor Veglio', replica la Padania. "Se i rapporti tra lo Stato e la Chiesa andranno avanti lungo questa deriva" "bisognerà inserire, nell'agenda delle riforme, anche una revisione del Concordato e dei Lateranensi. Non ci pare il caso", scrive l'organo del Carroccio in un editoriale in prima pagina, a firma di Stefano B. Galli.


Tre giorni fa l'esponente leghista, difendendo la linea del governo sulla lotta all'immigrazione clandestina, aveva detto che «solo un messaggio chiaro» può fermare i viaggi «della disperazione, che, purtroppo, hanno portato a morire, nelle acque del canale di Sicilia, tanti, partiti anche sulla base dei messaggi dell'opposizione o di monsignor Vegliò». Le parole del ministro della Semplificazione erano arrivate dopo che il presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti, davanti alla tragedia del Canale di Sicilia in cui sarebbero morti 73 eritrei, aveva espresso il suo «dolore» per «il continuo ripetersi» delle morti in mare e aveva esortato le «società sviluppate» a «rispettare sempre i diritti dei migranti» e a non «chiudersi all'egoismo». «Mai sono stato contraddetto dalla Santa Sede», «mai sono stato contraddetto dalla Conferenza episcopale italiana» e «come capo dicastero ho il grande onore di fare dichiarazioni a nome della Santa Sede» ha voluto precisare Vegliò rispondendo direttamente al ministro leghista.

LA POLEMICA -Nell'intervista rilasciata a Radio Vaticana in seguito alla sciagura nel Canale di Sicilia, Vegliò aveva anche sottolineato che, a suo avviso le società «cosiddette civili», sono sempre più egoiste, al punto da preferire, in casi estremi, di condividere i propri beni con gli animali domestici piuttosto che con lo straniero. Dopo l'intervista, Calderoli aveva tra l'altro sottolineato che «le parole sugli immigrati pronunciate da monsignor Vegliò non sono quelle del Vaticano e della Cei da cui, anzi, spesso, lo stesso Vegliò è stato poi contraddetto». «La mia dichiarazione - ha precisato ora il presule - partiva solo da un fatto concreto, tragico: la morte di tante persone, senza accuse, ma chiamando tutti alla propria responsabilità».

REAZIONI - Sulla scia delle parole di monsignor Vegliò, l'opposizione insorge contro l'esecutivo. «Il governo continua a farci fare una pessima figura con tutti. Dopo la Ue, l'Unhcr, ora anche col Vaticano. La dichiarazione di monsignor Vegliò è di una chiarezza lampante. L'esecutivo, soprattutto per quanto riguarda le tematiche dell'immigrazione, non può essere guidato dal Carroccio», afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei. Per il presidente dei senatori dell'Italia dei Valori Felice Belisario, le parole del numero uno del Pontificio Consiglio epr i Migranti dimostrano che «il Carroccio tiene in ostaggio Berlusconi e il suo esecutivo e che, per accontentare il suo elettorato xenofobo, è disposto a farci fare una pessima figura anche con la Santa Sede. Che cosa ne dicono i cattolici del Pdl? Perchè stanno zitti?», chiede Belisario. A parlare, tra gli esponenti del governo, è il ministro La Russa: «Ho grande rispetto per la Chiesa e mi inchino alla sua missione, che è quella della carità, che deve essere esercitata nei confronti di tutti. Poi c'è una missione diversa, che è quella di chi ha il dovere di far rispettare le leggi, missione che appartiene alla politica e alle istituzioni» spiega il titolare della Difesa.

martedì 25 agosto 2009

Obama, illusione o realtà? Un giudizio critico

Com’era prevedibile i primi 100 giorni della presidenza Obama sono partiti con il turbo di fronte ad una situazione economica e geopolitica straordinariamente complessa e alla necessità di fornire all’ opinione pubblica e ancor di più ai mercati economici segnali forti e l’impressione di uno stacco netto dall’amministrazione precedente: uno dei primissimi atti dell’esecutivo è stato ad esempio quello dell’abolizione della tortura e della chiusura di Guantanamo e un’altra grossa inversione di tendenza, anche questa dal forte carattere simbolico, si è avuta con la decisione di tornare a finanziare le organizzazioni non governative impegnate nella pianificazione familiare: il primo ha un valore di forte contrapposizione alle derive autoritarie dell’amministrazione Bush, il secondo atto è invece un segnale alla destra neocon che ha determinato negli ultimi anni un forte appannamento dell’aspetto laico degli Stati Uniti.

ECONOMIA
Ancora maggiore è però l’interesse determinato da quelli che sono i primi interventi di carattere economico. Anzi, l’interesse qui è doppio nel senso che per la prima volta (probabilmente nella storia mondiale) l’aspetto ecologico viene a coincidere, ad essere considerato, sotto un profilo economico : per la prima volta si ha una apparente superamento di quel dualismo che vedeva il problema ecologico contrapposto utopisticamente alla cosidetta Real Politik o comunque a quelle che erano le stringenti esigenze politiche ed economiche di breve periodo.
Le premesse sono note: da una parte vi sono considerazioni che non sono più esclusiva dei “sognatori” Greenpeace o di alcuni ecologisti accaniti, ma che sono quasi unanimanente condivise, seppur ovviamente con diversi rilievi e con diverse valutazioni, dall’intero mondo scientifico, la cui punta dell’iceberg è sicuramente l’effetto serra, con tutto ciò che esso comporta e che sta già comportando in termini di segnali “preliminari” (le sciagure meteorologiche degli ultimi anni o lo scioglimento dei ghiacci).
Dall’altra c’è l’onnipresente crisi economica: sono stati sprecati molti paragoni con la crisi del ‘29: d’altra parte, come ricordaro anche altrove, molte delle considerazioni che sono state fatte forzando forse un po’ la similitudine si sono rivelate o si riveleranno decisamente artificiose perché tendono a creare un parallelo tra due quadri geopolitici, economici e tecnologici distanti anni luce: la virulenza del fenomeno può essere analoga, il modo in cui esso dispiegherà le sue dinamiche saranno sicuramente diverse. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Quello che adesso conta, ai fini dell’analisi, è questa apparente sovrapposizione, del tutto inedita, tra esigenze economica ed ecologiche: per la prima volta l’ecologia assume un’aspetto economico.
Basti pensare che c’è chi sta già profetizzando una futura bolla speculativa legata all’ecologia e che già ora basta visitare un qualsiasi sito internet o “accendere” un qualsiasi canale americano per rendersi conto che il 75% delle pubblicità cavalcano il tema dell’ecologia o sono spot di società legate alle nuove tecnologie ecologiche. C’è una straordinaria (e in gran parte solo apparente, è ovvio) convergenza tra l’emergenza economica e quella ecologica, che sembra tradursi nella speranza di creare un circolo virtuoso riciclando (è il caso di dirlo) e rivitalizzando attraverso un approccio, oltre che un sistema tecnologico e industriale nuovo , una politica economica per certi versi vecchia di cent’anni.
Quella politica di interventismo pubblico che nel’29 era una novità testata precedentemente solo dai paesi nordici, ma che in seguito è diventata una componente essenziale della politica economica di tutti gli Stati occidentali (e non solo), consistente nel rilanciare un aumento della domanda indotta attraverso creazione di posti di lavoro da parte dello Stato, il finanziamento pubblico alle aziende, il rafforzamento delle maglie di supporto sociale verrebbe quindi riletto in un’ottica “verde” di efficienza e di innovazione ecologica.
In altre parole l’aspetto interessante di questo Green New Deal è quindi che l’investimento questa volta si dovrebbe orientare, almeno in parte, su tecnologie “pulite” e su modelli produttivi ecologicamente efficienti: un tipico esempio è la necessità di ottimizzare la rete della distribuzione dell’energia per minimizzare la dispersione o la riduzione degli sprechi negli edifici pubblici o, ancora, il via libera a regolamentazioni da parte dei singoli stati sulle emissioni.
A rafforzare questo orientamento ci sono ovviamente numerose considerazioni a latere, prima fra tutte la consapevolezza che gli Stati Uniti non avranno, almeno nel breve periodo, i fondi per “altri Iraq” e dovranno giocare maggiormente di fino per poter mettere una pezza, seppur provvisoria, al problema dell’approvigionamento energetico. Altro elemento di rilievo è il cambiamento di attaggiamento delle Corporation legate al settore petrolifero che, per motivi di convenienza economica, stanno stanno già aprendosi, seppur preliminarmente, ai cosiddetti combustibili ecologici alternativi: insomma, c’è odore di dollari nell’aria per chi si converte alle idee ecologiche.
Si ridarebbe insomma all’economia un volano reale e “tangibile”, come era stato durante gli anni ‘90 con la New Economy che, aldilà delle speculazioni fisiologiche della bolla, faceva capo alla comparsa di servizi e tecnologie realmente nuove ed integratesi in seguito stabilmente conla “old economy”: lo stesso non si può dire ovviamente di molti vettori del decennio in corso, in gran parte consistenti in fenomeni speculativi come quelli dei derivati.

POLITICA ESTERA
Deciso è l'impegno per il raggiungimento della pace in Palestina, attraverso incontri con le controparti (governo israeliano e anp), mentre chiusa resta la strada al dialogo con Hamas fin quando non fermerà il lancio di razzi e non riconoscerà lo stato di Israele. La visione del problema da parte del presidente è stata messa in evidenza durante la visita al Cairo del 4 giugno.
Qui una parte del discorso:
"I legami tra Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti.

Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi di concentramento dove gli ebrei venivano schiavizzati, torturati, fucilati, uccisi con il gas per mano del Terzo Reich. Furono uccisi 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e odiosa. Minacciare di distruggere Israele o perpetuare i vili stereotipi sugli ebrei è profondamente sbagliato, ha l’effetto di evocare nelle menti degli israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la pace che le popolazioni di quella regione si meritano.

D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese – sia musulmana che cristiana – abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre.

I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani lamentano gli attacchi e la costante ostilità che hanno dovuto affrontare nel corso della loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza.

Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personalmente per raggiungere quest’obiettivo, impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità. I palestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché resistere attraverso la violenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al successo.

La popolazione nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la violenza a permettere di ottenere una piena uguaglianza di diritti. E’ stata, al contrario, la pacifica e determinata insistenza sugli ideali centrali nella fondazione degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Sudafrica e il Sud Est asiatico, per l’Europa dell’Est e l’Indonesia. La semplice verità è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie signore che viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in questo modo – al contrario – la si abbandona.

Per i palestinesi è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità palestinese deve sviluppare una capacità di governo, creare istituzioni che siano al servizio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una parte dei palestinesi, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo. Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in passato e il diritto di Israele all’esistenza.

Israele deve, allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della Palestina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti israeliani perché questo viola gli accordi precedenti e indebolisce gli sforzi per raggiungere la pace. Questo è il momento di fermare gli insediamenti. Israele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i palestinesi possano vivere, lavorare e sviluppare la propria società. La crisi umanitaria di Gaza, infatti, devasta le famiglie palestinesi, ma è anche una minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è anche la mancanza di possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana della popolazione palestinese deve essere necessariamente una componente del cammino di pace e Israele deve agire concretamente per permettere tutto questo.

Gli Stati Arabi, infine, devono riconoscere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio importante, ma che non può costituire la fine delle loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano in grado di gestire uno Stato, un motivo per riconoscere la legittimità dello Stato di Israele e, ancora, per scegliere il progresso piuttosto di concentrarsi sul passato.

Gli Stati Uniti collaboreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le proposte e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in privato – molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo stesso modo, molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato.
La responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé, Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera."

RIFORMA SANITARIA
La riforma sanitaria americana, uno dei punti cardine della campagna elettorale di Barack Obama, si farà "entro l'anno". Lo ha confermato lo stesso presidente degli Stati Uniti nel corso di una conferenza stampa dalla Casa Bianca. "Ho fretta perché ogni giorno ricevo lettere di famiglie bastonate dai costi per la salute", ha spiegato Obama, aggiungendo che il dibattito sulla sanità "non è un gioco" e che deve andare oltre gli steccati politici. Per pagare la riforma sulla sanità il presidente Usa si è detto favorevole alla cosiddetta "tassa sui milionari", proposta dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, che prevede un'imposta alle persone con reddito superiore ai 500 mila dollari o alle coppie con oltre un milione di dollari all'anno. "Dobbiamo ricostruire la nostra economia dopo la crisi e dobbiamo renderla più forte di prima. Per questo la riforma del sistema diventa un punto centrale", ha quindi spiegato Obama in un'intervista concessa al 'Washington Post'. "Faremo passare questa riforma che abbassa i costi, promuove le scelte e dà copertura sanitaria a ogni americano. E lo faremo entro quest'anno".

Fermiamo l'acquisto dei 131 cacciabombardieri JSF


"Fermiamo l'acquisto dei cacciabombardieri JSF". E' l'appello lanciato dalla campagna Sbilanciamoci! al Parlamento italiano che si è espresso sulla prosecuzione del programma per l'acquisto di 131 caccia bombardieri Joint Strike Fighters (JSF-F35) che impegnerà il nostro paese fino al 2026 con una spesa di quasi 14 miliardi di euro.
"Si tratta di una decisione irresponsabile sia per la politica di riarmo che tale scelta rappresenta, sia per le risorse che vengono destinante ad un programma sovradimensionato nei costi, sia per la sua incoerenza - si tratta di un aereo di attacco che può trasportare anche ordigni nucleari - con le autentiche missioni di pace del nostro paese" - riporta la campagna promossa da oltre 40 organizzazioni della società civile italiana. Una spesa "sbagliata e incompatibile con la situazione sociale del paese" sostiene la campagna soprattutto in un momento come questo di "grave crisi economica in cui non si riescono a trovare risorse per gli ammortizzatori sociali per i disoccupati e vengono tagliati i finanziamenti pubblici alla scuola, all'università e alle politiche sociali".
Sbilanciamoci chiede di destinare in alternativa una parte delle risorse già accantonate a programmi di riconversione civile dell'industria bellica e agli interventi delle politiche pubbliche di cooperazione internazionale, che la finanziaria ha tagliato di ben il 56%. "Con 14 miliardi di euro si possono fare molte altre cose in alternativa. Ad esempio si possono contemporaneamente costruire 5000 nuovi asili nido, costruire un milione di pannelli solari, dare a tutti i collaboratori a progetto la stessa indennità di disoccupazione dei lavoratori dipendenti, allargare la cassa integrazione a tutte le piccole imprese" - sottolinea la campagna.
"Dopo le fasi di sviluppo e pre-industrializzazione - spiega Sbilanciamoci! - il Governo è passato alla fase di acquisizione di 131 cacciabombardieri JSF completi di relativi equipaggiamenti, supporto logistico iniziale e approntamento delle basi operative nazionali (4 aereoporti ed 1 portaerei). Tutto per circa 12,9 miliardi di euro nel periodo 2009-2026. A ciò va aggiunta la realizzazione sul suolo nazionale, a Cameri (Novara) di un centro europeo di manutenzione, revisione, riparazione e modifica dei velivoli italiani ed olandesi al costo di 605,5 milioni di euro, da consegnare entro il 2012. A queste spese va aggiunto il miliardo di euro già investito per la fase di sviluppo, arriviamo così a quasi 15 miliardi di euro".
Il Joint Strike Fighter (JSF-F35) è un aereo da combattimento monomotore, monoposto, in grado di operare alla velocità del suono, ma con velocità di crociera subsonica. E’ ottimizzato per il ruolo aria terra (quindi per l’attacco) ed ha due stive interne per le bombe che possono essere anche di tipo nucleare. E’ un velivolo di tipo stealth, cioè a bassa rilevabilità da parte dei sistemi radar e di altri sensori. L’aereo assolve un ampio ventaglio delle funzioni operative dell’Aeronautica Militare e della Marina Militare, ed andrà a sostituire gli AV-B della componente imbarcata della Marina e gli AM-X ed i Tornado della componente aeronautica.
Nella precedente legislatura il sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri, ha siglato con la controparte statunitense il protocollo d'intesa (Memorandum of understanding) formalizzando così l’ingresso nella fase di produzione, supporto e sviluppo ulteriore del caccia JSF. Capofila del progetto sono gli Stati Uniti e vi partecipano altri 8 paesi: Regno Unito al primo livello, Italia ed Olanda al secondo livello, Turchia, Canada, Australia Norvegia e Danimarca al terzo livello. La ditta capocommessa è l’americana Lokheed Martin Aero. L'impresa italiana maggiormente coinvolta è l’Alenia Aeronautica.
Per gli Stati Uniti quello del JSF è il programma più costoso della sua storia militare. Infatti il costo complessivo si dovrebbe aggirare intorno ai 275 miliardi di dollari (all’inizio erano 245 miliardi di dollari). Il costo unitario è già salito da 37/47 milioni di dollari in base al modello, a 50/70 milioni di dollari ma nessuno giura su queste cifre; il costo reale, secondo alcuni si saprà solo quando si dovrà pagare. C’è chi parla di un costo unitario finale molto vicino ai 100 milioni di dollari. Il Pentagono allo stato attuale spenderà 12 miliardi di dollari l’anno per i prossimi 20 anni.
Passando all'Olanda la preoccupazione (per i conti pubblici) per il programma JSF è molto forte. Secondo la Corte dei Conti olandese tra il 1996 ed il 2006 i costi sono cresciuti dell’80% e per questa ragione i vari organismi di controllo (dei paesi interessati) preoccupati da questi dati hanno stabilito di ritrovarsi ogni sei mesi per verificare l’andamento del progetto. A queste riunioni non risulta abbiano mai partecipato i rappresentanti della Corte dei Conti italiana.
"I fautori del JSF - ricorda Sbilanciamoci! - affermano che non ci sono incompatibilità con il progetto europeo dell’Eurofighter perché il primo è un cacciabombardiere ed il secondo un caccia. Ma l’incompatibilità evidentemente è economica, visto che l’Italia ha chiesto al Consorzio dell'EFA di calcolare il costo di una revisione della sua partecipazione alla produzione del nuovo aereo. Si tratta dell’acquisizione dei 46 velivoli della terza tranche (2012-2017). Il preventivo di riduzione degli ordini richiesti al consorzio dovrebbe prevedere sia la possibilità di un taglio parziale delle consegne sia una rinuncia totale alla fornitura. Il danno per l’industria europea è fin troppo evidente"- sottolinea Sbilanciamoci!.
Tra l'altro i vertici della Difesa hanno calcolato la diminuzione delle esercitazioni e della manutenzione dei mezzi in base ai tagli apportati dalla Finanziaria del 2009. In base a queste stime (tutte da verificare) l’Aeronautica potrà effettuare circa 30mila ore di volo a fronte delle 90mila previsionali del 2008. La situazione di manutenzione dei mezzi e dei sistemi d’arma complessi sarà ad un livello di efficienza: per l’anno 2009 al 45%-65%; per gli anni 2010-2011 al 20%-30%; dall’anno 2012 prossimo allo 0%. "Allora che senso ha investire in stratosferici sistemi d’arma se poi non si ha la certezza di poterli fare volare perché mancano i fondi per il carburante o per i pezzi di ricambio?" - domanda Sbilanciamoci!.
Inoltre per il ritorno occupazionale si parla di 1/10 rispetto alle previsioni, cioè 200 assunzioni a Cameri e 800 persone per l’indotto senza avere poi quel passaggio di know how sperato. "I 10mila posti di lavoro promessi sono dunque un'autentica invenzione" - sottolinea Sbilanciamoci!. Infine c'è l’articolo 11 della Costituzione: "L’Italia ripudia la guerra...". "Che ci facciamo con 131 cacciabombardieri d'attacco in missioni di pace che dovrebbero avere un ruolo di peace keeping?"
"In definitiva - come sottolinea in un editoriale Sbilanciamoci! - la "sicurezza nazionale" o la "funzionalità delle nostre Forze Armate" non c'entra niente: è solo un gioco di interessi convergenti (business dell'industria bellica nazionale, autoconservazione corporativa delle Forze Armate, difesa di uno status internazionale peraltro assai dubbio, ecc.) a spingere il Governo e il Parlamento in una direzione completamente sbagliata. Quella del riarmo e dell'irresponsabilità sociale".

lunedì 24 agosto 2009

Banca d'Italia: Crescita immigrati non toglie lavoro agli Italiani

ROMA - L’ondata migratoria che ha investito il nostro paese negli ultimi anni non ha tolto lavoro agli italiani, ma ha aumentato le possibilità di occupazione per i cittadini del nostro paese, se non altro quelli più istruiti che mirano a posti di gestione e di amministrazione rispetto alla massa di stranieri con mansioni tecniche ed operaie e per le donne che, grazie a badanti e baby sitter, riescono a poter far fronte agli impegni fra famiglia e lavoro. A evidenziare la situazione è uno studio della Banca d’Italia dedicato al fenomeno immigrazione e contenuto nel rapporto sulle economie regionali del 2008 che afferma come “la crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazioni per gli italiani” e in cui si evidenzia “l’esistenza di complementarietà tra gli stranieri e gli italiani più istruiti e le donne”.
In pratica, secondo l’elaborazione degli economisti dell’istituto centrale, l’afflusso di lavoratori stranieri “impiegati con mansioni tecniche ed operaie può aver sostenuto la domanda di lavoro per funzioni gestionali e amministrative che richiedono qualifiche più elevate, maggiormente rappresentate tra gli italiani”. L’arrivo degli stranieri ha inoltre modificato, secondo Via Nazionale, il tradizionale afflusso dal Sud al Centro Nord di lavoratori con bassi titoli di studio per il settore industriale. Nelle regioni del Centro Nord infatti, maggiormente interessate dall’immigrazione dall’estero è aumentato l’afflusso di italiani laureati a fronte di una modesta riduzione di quelli con un titolo di studio più basso. Gli stranieri nelle regioni centro settentrionali hanno incontrato così una domanda di lavoro prevalentemente nel settore industriale “che in passato era soddisfatta dall’immigrazione interna dal Mezzogiorno”.
Secondo il rapporto inoltre gli stranieri hanno sì un tasso di occupazione superiore a quello degli italiani ma scontano un più basso livello di scolarità. Questo, insieme a una maggiore concentrazione in settore e mansioni a minori contenuto professionale (il 79,3% degli stranieri occupati regolari al Centro Nord infatti fa l’operaio contro il 35,1% degli italiani), comporta che i redditi da lavoro dipendente nel settore privato degli stranieri siano inferiori di circa l’11% a quello degli italiani. Il 44% degli immigrati infatti è impiegato in occupazioni non qualificate o semi-qualificate (contro il 15% degli italiani), una percentuale che sale a quasi il 60% nel Mezzogiorno. Una nota dolente è rappresentata dalle nuove generazioni di stranieri che, secondo la Banca d’Italia “rappresentano una componente rilevante della futura forza lavoro nel paese”. Nel 2007-2008 gli alunni con cittadinanza non italiana erano 570mila (di cui in terzo nati in Italia), il 6,4% del totale. Tuttavia uno straniero su quattro fra i 15 e i 10 anni (uno su tre se risiede al Mezzogiorno) ha abbandonato la scuola contro il 12% degli italiani, una percentuale già alta per il contesto internazionale.

Ma il mondo è più di destra o di sinistra?



Il mondo è di sinistra!!!
Questa è l'estrema sintesi che si può ricavare confrontando i legittimi, o meno, governi di tutti gli stati del globo terrestre.

Ho provato a inserire i governi degli stati dell'ONU all'interno di due categorie generali: destra e sinistra, cosi come le intendiamo noi in europa e, a parte qualche difficoltà di classificazione di alcuni paesi anche molto importanti come Stati uniti e Russia, il quadro che ne viene fuori è piuttosto chiaro.
Per fare un po’ di chiarezza specifico i concetti di destra e sinistra politica: tendenzialmente un governo di destra si distingue per una marcata tendenza al liberismo economico, un maggiore conservatorismo che trova alleati importanti nelle chiese e nei movimenti religiosi locali e l'appoggio alla teoria dello stato minimale (poche tasse, servizi sociali ridotti all'osso, precarietà nel mondo del lavoro).Un governo di sinistra è invece un governo che tende a regolare il mercato economico, che si oppone al conservatorismo e cerca di costruire una società più giusta attraverso il potenziamento dei servizi sociali, la tutela dei lavoratori, il sostegno alle fasce più deboli e la tutela dei diritti fondamentali anche al prezzo di un aumento delle tasse nei confronti delle fasce più ricche.

AMERICA
L'america Latina è governata quasi totalmente da governi di sinistra che comprendono i regimi più radicali come quello di Castro (Cuba), il governo di Chavez (Venezuela), quello di Lula (Brasile) e quello di Evo Morales (Bolivia); e governi più moderati, ne è un esempio quello argentino di Kirchner o il governo della presidentessa Bachelet (Cile). L'unica eccezione probabilmente è rappresentata dall'Honduras precedentemente governato da una coalizione di centro-sinistra guidata da Manuel Zelaya e oggi vittima di un colpo di stato militare.
La popolazione del nord e centro-America è invece spostata più a destra nell'asse politico. Di centro destra sono i partiti al governo in Canada e in Messico, mentre un caso a parte vanno sicuramente considerati gli USA; dove una sinistra politica non ha mai trovato terreno fertile per affermarsi e la competizione politica sembra più dettata da un partito di centro-destra, quello repubblicano, ed uno di centro, quello democratico. Anche se il nuovo corso di Obama sembra molto sensibile ai temi cari alla sinistra europea e promette interventi in campo economico per la tutela dei posti di lavoro e la riforma del sistema sanitario.

AFRICA - MEDIO ORIENTE
Praticamente impossibile risulta una classificazione dei vari paesi Africani e medio-orientali, vastissime porzioni d'Africa sono ancora soggette alla miriade di leggi tribali esistenti e gli stati- nazione più saldi sono retti da governi islamici che si caratterizzano per uno spiccato senso di solidarietà che si traduce in un sostegno da parte dello stato verso i più deboli, e un senso di sfiducia verso la corsa al profitto occidentale (tipicamente di sinistra) ma soggetti alle ferree regole della sha'aria e ai precetti del Corano.
Il paese più moderno ed economicamente avanzato, il Sudafrica è retto da un governo di centro-sinistra.
Va sicuramente classificato come di destra invece il governo Israeliano di Benjamin Netanyahu.

ESTREMO ORIENTE
Un'altro governo difficilmente classificabile è quello russo di Medvedev, diretto successore di un governo che ha fatto ampio uso delle liberalizzazioni salvo poi statalizzare le imprese più importanti come la Gazprom; un governo che si pone in una condizione di sfida all'egemonia Statunitense, in favore della causa iraniana. Il Pakistan è governato da un partito islamico, l'India da una coalizione di centro-sinistra, la cina da un governo post-comunista, l'indocina è formata da stati che si definiscono socialisti (Laos, Cambogia, Vietnam...).
L'Australia è governata da un partito laburista (di centro-sinistra), e il Giappone, governato da mezzo secolo quasi ininterrottamente da un partito di centro-destra, ha assistito nel mese di agosto 2009 al crollo del suddetto partito e alla storica vittoria del PD.

EUROPA
I partiti di sinistra hanno messo in evidenza segnali di crisi alle elezioni europee del 2009 e restano al potere solo in Inghilterra, Spagna, Portogallo e Norvegia. Governi di destra reggono invece paesi come la Francia, l'Italia, la Grecia, la Germania, l'Austria, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia e i paesi dell'est.

Conclusioni
Praticamente tutto il mondo, salvo qualche eccezione, è governato da forze di sinistra. Un eccezione di rilievo è rappresentata dai paesi europei e questo dovrebbe far riflettere i leader dei partiti della sinistra Europea. A mio personale modo di vedere ciò che determina la vittoria delle destre in Europa è la paura. La paura nei confronti del flusso migratorio che sta investendo il continente e al quale non si riesce a trovare un freno. Oggi dimostrare solidarietà ai migranti equivale ad un suicidio politico, d'altro canto un partito di sinistra degno di questo nome non può tradire le origini della sua funzione politica.

domenica 23 agosto 2009

STIPENDI DEI PARLAMENTARI EUROPEI A CONFRONTO: In Italia la politica più cara d'Europa

E io pago sarebbe il commento della stragrande maggioranza degli Italiani, di destra e di sinistra che siano... perchè il dato è veramente sconfortante.

Con oltre 5 mila euro di stipendio mensile, sommati agli 8 mila euro tra spese di rappresentanza e diaria, i parlamentari che popolano le aule di Camera e Senato possono maturare retribuzioni superiori ai 20 mila euro in un solo mese, senza considerare il fitto sottobosco di benefit e agevolazioni integrative.
Difficile stabilire quanto costi la politica agli italiani. Non sarebbe sufficiente un plotone di ragionieri, considerato il dedalo di rimborsi, diarie, spese per il collegio elettorale che costituiscono la busta paga di Parlamentari, Europarlamentari, membri dei consigli regionali, provinciali e circoscrizionali, sommati ai costi di locazione, manutenzione e spese straordinarie per gli edifici che li ospitano.
STIPENDI DEI PARLAMENTARI EUROPEI A CONFRONTO IN EURO (Compensi annui netti)
Italia _______Germania_____ Spagna
144.084,36___84.108,oo _____35.051,00

Austria _____Gran Bretagna_____ Rep. Ceca
106.583,40___ 81.600,00________24.180,00

Olanda______ Francia_____ Polonia
86.125,56____ 62.779,00___ 7.370,00

Facendo i conti in tasca ai parlamentari italiani si scopre che i nostri deputati sono tra i più ricchi, e quindi cari, d'Europa, "staccando" i vicini ed efficientissimi austriaci di circa 40 mila euro su base annua! Se il deputato medio prende nel Bel Paese quasi 144 mila euro l'anno, varcato il confine austriaco, un suo omologo arriva invece ad appena 106 mila euro annuali.
Più convenienti anche i parlamentari tedeschi e francesi che costano alla popolazione decisamente meno che in Italia: rispettivamente 84 mila e 62 mila.
Se poi si sale nel Nord Europa si scopre che l'efficientissima monarchia svedese sfoggia un eccellente sistema di welfare, infatti, a differenza dell'esoso Monarca, il parlamentare si accontenta di 57 mila euro l'anno.
Il Quirinale è un perfetto esempio che vale per tutta la gestione dei governi fino ad oggi senza distinzione di colori e partiti. I dipendenti del Quirinale ammontano ad oggi a 2.158 unità contro i circa 1.000 dell'Eliseo e Buckingham Palace e le varie residenze dei Windsor.
La lista delle spese è lunga ed imbarazzante: basti pensare che l'affitto di 4 palazzi alla Camera dei Deputati costerà per i prossimi 18 anni 444 milioni di Euro.
Inghilterra: la regina è “trasparente”
Sebbene sia tacciata di poca parsimonia, la Regina d'Inghilterra sembra conservare un "civico" e "civile" rispetto per i cittadini britannici, a cui fa sapere, in 33 dettagliatissime pagine, le entrate e le uscite di bilancio della famiglia reale.Essere cittadino britannico consente di sapere che i dipendenti a tempo indeterminato a carico della Civil List alla fine del 2005 erano 310, cioè 3 in più rispetto all'anno prima, che la Regina ha avuto regali ufficiali per 152.000 euro oppure che nelle cantine reali sono stoccati vini e liquori «in ordine di annata», per un valore stimato in 608.000 euro.
Altra aria si respira al Quirinale, da cui non sembra possibile avere alcun giustificativo delle spese sostenute. Sebbene la busta paga del capo dello Stato sia rimasta pressoché invariata dagli anni '50, il "palazzo" e la "corte" intorno al presidente sembrano però essere cresciuti a dismisura negli ultimi anni. Stando ad un'indagine commissionata da Carlo Azeglio Ciampi nel 2001, e mai resa nota, il personale in servizio da noi era composto da 931 dipendenti diretti, più 928 altrui avuti per «distacco», per un totale di 1.859 addetti. Un seguito che avrebbe fatto invidia alla stessa Regina Elisabetta.
Se il costo della democrazia in Italia sembra sproporzionato rispetto ad Inghilterra e Francia, il paragone si fa addirittura imbarazzante nel confronto con la presidenza tedesca che sulle casse pubbliche pesa per 18 milioni e mezzo di euro: un ottavo rispetto alla nostra.
La presidenza tedesca, dai compiti istituzionali simili, ha infatti dimensioni molto più contenute: 50 addetti alle tre direzioni organizzative, 100 ai servizi logistici e di supporto e 10 agli uffici degli ex presidenti. Totale: 160. Cioè 29 in meno dei soli addetti alla sicurezza di Castelporziano.
Per quanto riguarda in generale i costi della politica, va sottolineato che i deputati del Bundestag percepiscono uno stipendio di 7.009 euro al mese, mentre da anni tutti i cancellieri che si sono succeduti hanno portato avanti una drastica riduzione del personale dello Stato.
Alla fine dell'anno in corso il totale dei dipendenti dello Stato tedesco nel settore civile, messo ovviamente da parte l'esercito, toccherà 258.000 unità, mentre le spese per il personale toccheranno a fine 2008 il minimo assoluto del 9,4 per cento del bilancio dello Stato, rispetto al 12,1 per cento del 1991 e dell'11,4 per cento del 1998.
Il numero di dipendenti della Cancelleria è di appena 443 unità, mentre il presidente della Repubblica, Horst Koehler, dispone appena di 170 funzionari. Il Bundestag, il Parlamento federale, conta 2.347 impiegati di diverso ordine e grado, il ministero degli Esteri ne ha 2.734, escluso ovviamente il personale in servizio nelle sedi diplomatiche all'estero.

sabato 22 agosto 2009

Quanto è aumentato il debito pubblico italiano durante la crisi


Il debito pubblico italiano tocca un nuovo record. Ad aprile sale in valore assoluto a 1.750,4 miliardi di euro. E’ quanto emerge dai dati riportati dal bollettino Statistico della Banca d’Italia. Il debito pubblico italiano ha registrato una forte accelerazione dall’inizio del 2009: il tradizionale trend crescente dei primi mesi ha visto quest’anno lo stock del debito salire del 5,3% rispetto ai 1.662,6 miliardi registrati alla fine del 2008.
Il balzo maggiore si era registrato tra febbraio e marzo (quando si è passati da 1.707,1 a 1.741 miliardi), ma aprile ha comunque segnato una crescita di ulteriori 9 miliardi (+0,5% rispetto al mese precedente). La dinamica crescente è dovuta soprattutto ai conti delle amministrazioni centrali, ma anche le amministrazioni locali hanno visto lievitare il proprio debito.
A livello centrale il debito è salito da 1.637,8 a 1.647,1 miliardi mentre le amministrazioni locali hanno contribuito con un miliardo, passando da 128,6 a 129,6 miliardi.
Anche se il Governo non ama parlare del debito pubblico e quelle rare volte che affrontano questo delicato problema con gesti significativi, cercano comprensione per la catastrofe ereditata che una sorte sfavorevole ha fatto cadere sulle loro innocenti spalle, rimane il fatto che, un’impennata così rapida e tossica come quella verificatasi dal 31 dicembre 2008 a maggio 2009 non si fosse mai riscontrata. Quei 90 miliardi di euro corrispondenti a circa 175mila miliardi di lire. Sono in sostanza, un’enormità. Tanto più allarmante perché finora nessun membro del governo ha avuto la gentilezza di fornire anche il più vago chiarimento sulle cause di un simile precipizio. L’opposizione, in tutto questo disastro, continua a fare gli interessi dei “rivali politici” trascurando gli interessi della collettività. Forse bisogna attendere la fine dell’autunno per capire se l’opposizione governa dietro le quinte o finalmente inizia la sua opposizione seria e costruttiva. Forse sarà troppo tardi per scongiurare la bancarotta del bel paese.