martedì 25 agosto 2009

Obama, illusione o realtà? Un giudizio critico

Com’era prevedibile i primi 100 giorni della presidenza Obama sono partiti con il turbo di fronte ad una situazione economica e geopolitica straordinariamente complessa e alla necessità di fornire all’ opinione pubblica e ancor di più ai mercati economici segnali forti e l’impressione di uno stacco netto dall’amministrazione precedente: uno dei primissimi atti dell’esecutivo è stato ad esempio quello dell’abolizione della tortura e della chiusura di Guantanamo e un’altra grossa inversione di tendenza, anche questa dal forte carattere simbolico, si è avuta con la decisione di tornare a finanziare le organizzazioni non governative impegnate nella pianificazione familiare: il primo ha un valore di forte contrapposizione alle derive autoritarie dell’amministrazione Bush, il secondo atto è invece un segnale alla destra neocon che ha determinato negli ultimi anni un forte appannamento dell’aspetto laico degli Stati Uniti.

ECONOMIA
Ancora maggiore è però l’interesse determinato da quelli che sono i primi interventi di carattere economico. Anzi, l’interesse qui è doppio nel senso che per la prima volta (probabilmente nella storia mondiale) l’aspetto ecologico viene a coincidere, ad essere considerato, sotto un profilo economico : per la prima volta si ha una apparente superamento di quel dualismo che vedeva il problema ecologico contrapposto utopisticamente alla cosidetta Real Politik o comunque a quelle che erano le stringenti esigenze politiche ed economiche di breve periodo.
Le premesse sono note: da una parte vi sono considerazioni che non sono più esclusiva dei “sognatori” Greenpeace o di alcuni ecologisti accaniti, ma che sono quasi unanimanente condivise, seppur ovviamente con diversi rilievi e con diverse valutazioni, dall’intero mondo scientifico, la cui punta dell’iceberg è sicuramente l’effetto serra, con tutto ciò che esso comporta e che sta già comportando in termini di segnali “preliminari” (le sciagure meteorologiche degli ultimi anni o lo scioglimento dei ghiacci).
Dall’altra c’è l’onnipresente crisi economica: sono stati sprecati molti paragoni con la crisi del ‘29: d’altra parte, come ricordaro anche altrove, molte delle considerazioni che sono state fatte forzando forse un po’ la similitudine si sono rivelate o si riveleranno decisamente artificiose perché tendono a creare un parallelo tra due quadri geopolitici, economici e tecnologici distanti anni luce: la virulenza del fenomeno può essere analoga, il modo in cui esso dispiegherà le sue dinamiche saranno sicuramente diverse. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Quello che adesso conta, ai fini dell’analisi, è questa apparente sovrapposizione, del tutto inedita, tra esigenze economica ed ecologiche: per la prima volta l’ecologia assume un’aspetto economico.
Basti pensare che c’è chi sta già profetizzando una futura bolla speculativa legata all’ecologia e che già ora basta visitare un qualsiasi sito internet o “accendere” un qualsiasi canale americano per rendersi conto che il 75% delle pubblicità cavalcano il tema dell’ecologia o sono spot di società legate alle nuove tecnologie ecologiche. C’è una straordinaria (e in gran parte solo apparente, è ovvio) convergenza tra l’emergenza economica e quella ecologica, che sembra tradursi nella speranza di creare un circolo virtuoso riciclando (è il caso di dirlo) e rivitalizzando attraverso un approccio, oltre che un sistema tecnologico e industriale nuovo , una politica economica per certi versi vecchia di cent’anni.
Quella politica di interventismo pubblico che nel’29 era una novità testata precedentemente solo dai paesi nordici, ma che in seguito è diventata una componente essenziale della politica economica di tutti gli Stati occidentali (e non solo), consistente nel rilanciare un aumento della domanda indotta attraverso creazione di posti di lavoro da parte dello Stato, il finanziamento pubblico alle aziende, il rafforzamento delle maglie di supporto sociale verrebbe quindi riletto in un’ottica “verde” di efficienza e di innovazione ecologica.
In altre parole l’aspetto interessante di questo Green New Deal è quindi che l’investimento questa volta si dovrebbe orientare, almeno in parte, su tecnologie “pulite” e su modelli produttivi ecologicamente efficienti: un tipico esempio è la necessità di ottimizzare la rete della distribuzione dell’energia per minimizzare la dispersione o la riduzione degli sprechi negli edifici pubblici o, ancora, il via libera a regolamentazioni da parte dei singoli stati sulle emissioni.
A rafforzare questo orientamento ci sono ovviamente numerose considerazioni a latere, prima fra tutte la consapevolezza che gli Stati Uniti non avranno, almeno nel breve periodo, i fondi per “altri Iraq” e dovranno giocare maggiormente di fino per poter mettere una pezza, seppur provvisoria, al problema dell’approvigionamento energetico. Altro elemento di rilievo è il cambiamento di attaggiamento delle Corporation legate al settore petrolifero che, per motivi di convenienza economica, stanno stanno già aprendosi, seppur preliminarmente, ai cosiddetti combustibili ecologici alternativi: insomma, c’è odore di dollari nell’aria per chi si converte alle idee ecologiche.
Si ridarebbe insomma all’economia un volano reale e “tangibile”, come era stato durante gli anni ‘90 con la New Economy che, aldilà delle speculazioni fisiologiche della bolla, faceva capo alla comparsa di servizi e tecnologie realmente nuove ed integratesi in seguito stabilmente conla “old economy”: lo stesso non si può dire ovviamente di molti vettori del decennio in corso, in gran parte consistenti in fenomeni speculativi come quelli dei derivati.

POLITICA ESTERA
Deciso è l'impegno per il raggiungimento della pace in Palestina, attraverso incontri con le controparti (governo israeliano e anp), mentre chiusa resta la strada al dialogo con Hamas fin quando non fermerà il lancio di razzi e non riconoscerà lo stato di Israele. La visione del problema da parte del presidente è stata messa in evidenza durante la visita al Cairo del 4 giugno.
Qui una parte del discorso:
"I legami tra Stati Uniti e Israele sono ben noti, questo legame non si può spezzare perché è basato su vincoli storici e culturali e sul riconoscimento che l’aspirazione per una patria ebraica affondi le proprie radici in un passato tragico che non può essere negato. Il popolo ebreo ha subito persecuzioni nel corso dei secoli e in tutto il mondo e, in Europa, l’anti-semitismo è culminato in un Olocausto senza precedenti.

Domani visiterò Buchenwald, che faceva parte di un sistema di campi di concentramento dove gli ebrei venivano schiavizzati, torturati, fucilati, uccisi con il gas per mano del Terzo Reich. Furono uccisi 6 milioni di ebrei, più dell’attuale popolazione di Israele e negare questo fatto è una posizione senza fondamento, ignorante e odiosa. Minacciare di distruggere Israele o perpetuare i vili stereotipi sugli ebrei è profondamente sbagliato, ha l’effetto di evocare nelle menti degli israeliani il più doloroso dei ricordi e, allo stesso tempo, di impedire la pace che le popolazioni di quella regione si meritano.

D’altro canto è innegabile che la popolazione palestinese – sia musulmana che cristiana – abbia sofferto nella ricerca di una patria. Per più di 60 anni hanno sopportato il dolore dell’essere profughi, molti attendono nei campi per rifugiati della Cisgiordania, di Gaza e delle regioni vicine la vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre.

I palestinesi devono sopportare le grandi e piccole umiliazioni quotidiane causate dall’occupazione. Sia dunque chiaro che la situazione della popolazione palestinese è intollerabile, l’America non ignorerà le legittime aspirazioni dei palestinesi di dignità, opportunità future e di un proprio Stato. Per decenni siamo rimasti in una situazione di stallo: due popoli con aspirazioni legittime, entrambi con una storia dolorosa alle spalle che rende difficile il compromesso. E’ facile puntare il dito – i palestinesi denunciano gli spostamenti di popolazione causati dalla fondazione dello stato di Israele e gli Israeliani lamentano gli attacchi e la costante ostilità che hanno dovuto affrontare nel corso della loro storia sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Tuttavia, se osserviamo il conflitto da uno solo dei due punti di vista non riusciremo a riconoscere la verità: l’unica soluzione è che le aspirazioni di entrambi i popoli vengano soddisfatte con la creazione di due Stati dove sia israeliani che palestinesi possano vivere in pace e sicurezza.

Questa soluzione è nell’interesse di Israele, dei palestinesi, degli Stati Uniti e del mondo intero e per questa ragione ho intenzione di impegnarmi personalmente per raggiungere quest’obiettivo, impiegando tutta la pazienza che sarà necessaria. Gli impegni sottoscritti dalle due parti nella Road Map sono chiari e affinché ci sia pace è tempo per loro di dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità. I palestinesi devono abbandonare ogni forma di violenza, perché resistere attraverso la violenza e l’omicidio è sbagliato e non porta al successo.

La popolazione nera degli Stati Uniti ha, per secoli, sofferto per le frustate ricevute durante la schiavitù e per l’umiliazione della segregazione, ma non è stata la violenza a permettere di ottenere una piena uguaglianza di diritti. E’ stata, al contrario, la pacifica e determinata insistenza sugli ideali centrali nella fondazione degli Stati Uniti. La stessa cosa può essere detta per il Sudafrica e il Sud Est asiatico, per l’Europa dell’Est e l’Indonesia. La semplice verità è che la violenza è un vicolo cieco, non è potere né coraggio lanciare dei razzi contro bambini che dormono, né far esplodere vecchie signore che viaggiano su un autobus. Non è così che si rivendica l’autorità morale, in questo modo – al contrario – la si abbandona.

Per i palestinesi è giunto il momento di concentrarsi su ciò che possono costruire, l’Autorità palestinese deve sviluppare una capacità di governo, creare istituzioni che siano al servizio dei bisogni delle sua gente. Hamas ha il supporto di una parte dei palestinesi, ma ha anche delle responsabilità: quella di contribuire a soddisfare le aspirazioni dei palestinesi e quella di unificare il popolo. Per questo deve abbandonare la violenza, riconoscere gli accordi stipulati in passato e il diritto di Israele all’esistenza.

Israele deve, allo stesso tempo, riconoscere che tanto quanto non può essere negato il suo diritto all’esistenza, allo stesso modo non può essere negato quello della Palestina. Gli Stati Uniti non riconoscono la legittimità dei continuati insediamenti israeliani perché questo viola gli accordi precedenti e indebolisce gli sforzi per raggiungere la pace. Questo è il momento di fermare gli insediamenti. Israele deve dimostrarsi all’altezza delle proprie responsabilità affinché i palestinesi possano vivere, lavorare e sviluppare la propria società. La crisi umanitaria di Gaza, infatti, devasta le famiglie palestinesi, ma è anche una minaccia per la sicurezza di Israele, come lo è anche la mancanza di possibilità per il futuro della popolazione che vive in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana della popolazione palestinese deve essere necessariamente una componente del cammino di pace e Israele deve agire concretamente per permettere tutto questo.

Gli Stati Arabi, infine, devono riconoscere che il Summit della Lega Araba è stato un inizio importante, ma che non può costituire la fine delle loro responsabilità. Il conflitto arabo-israeliano non dev’essere più utilizzato per distrarre le popolazioni delle Nazioni arabe da altri problemi, dev’essere invece un motivo di intervento a favore dello sviluppo delle istituzioni palestinesi che siano in grado di gestire uno Stato, un motivo per riconoscere la legittimità dello Stato di Israele e, ancora, per scegliere il progresso piuttosto di concentrarsi sul passato.

Gli Stati Uniti collaboreranno con chi vuole raggiungere la pace e renderanno pubbliche le proposte e le discussione fatte con gli Israeliani, i palestinesi e i rappresentanti degli Stati arabi. Non possiamo imporre la pace, ma – in privato – molti musulmani riconoscono il fatto che Israele non scomparirà e, allo stesso modo, molti israeliani riconoscono la necessità di uno Stato palestinese. E’ giunto il momento di agire per raggiungere ciò che tutti sanno essere vero. Sono state sparse troppe lacrime. Troppo sangue è stato versato.
La responsabilità di lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere assieme è nostra; è nostro l’impegno per far diventare la Terra Santa per tre grandi religioni il luogo di pace che dovrebbe essere; è nostro anche il dovere di rendere per molto tempo Gerusalemme una casa sicura per ebrei, cristiani e musulmani e un luogo in cui tutti i figli di Abramo possano ritrovarsi pacificamente come nella storia di Isra, in cui Mosé, Gesù e Maometto, che la pace sia con loro, erano uniti in preghiera."

RIFORMA SANITARIA
La riforma sanitaria americana, uno dei punti cardine della campagna elettorale di Barack Obama, si farà "entro l'anno". Lo ha confermato lo stesso presidente degli Stati Uniti nel corso di una conferenza stampa dalla Casa Bianca. "Ho fretta perché ogni giorno ricevo lettere di famiglie bastonate dai costi per la salute", ha spiegato Obama, aggiungendo che il dibattito sulla sanità "non è un gioco" e che deve andare oltre gli steccati politici. Per pagare la riforma sulla sanità il presidente Usa si è detto favorevole alla cosiddetta "tassa sui milionari", proposta dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, che prevede un'imposta alle persone con reddito superiore ai 500 mila dollari o alle coppie con oltre un milione di dollari all'anno. "Dobbiamo ricostruire la nostra economia dopo la crisi e dobbiamo renderla più forte di prima. Per questo la riforma del sistema diventa un punto centrale", ha quindi spiegato Obama in un'intervista concessa al 'Washington Post'. "Faremo passare questa riforma che abbassa i costi, promuove le scelte e dà copertura sanitaria a ogni americano. E lo faremo entro quest'anno".

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