Cos’è la scuola se non lo specchio d’una Waterloo? Cosa, mi chiedo, se non il luogo privilegiato delle contraddizioni, dei limiti, delle mille zone d’ombra che oscurano il futuro d’una società che rischia di implodere e trascinare nella rovina quanto abbiamo costruito di onesto e civile in centocinquant’anni di storia?
Ce l’avevano lasciata i nostri nonni ch’era ancora più o meno fascista, nonostante “Bella ciao” e i fuochi vittoriosi della guerra partigiana, e di là siamo nati alle nostre prime lotte, di là, da un antifascismo che s’è perso per strada, suscitato da privilegi da cancellare e da privilegiati da mettere a tacere, da una discriminazione tra classi sociali che aveva la ferocia d’un razzismo tra pari e annichiliva la sovranità popolare sulla linea del censo. Non l’antifascismo sclerotizzato nelle corone d’alloro e della retorica sciropposa delle “feste civili“ e dello stanco rituale repubblicano.
Da studenti iniziammo chiedendo “voce in capitolo“ e un “rappresentante di classe“, ponemmo poi questioni di democrazia, ci convincemmo che la selezione la fa la natura darvinista – e quella basta e avanza – e ci opponemmo all’esame d’avviamento professionale che separava alla base il povero dal ricco e ti marchiava all’origine come manovalanza.
Scuola di massa, dicemmo. E non voleva dire massificazione del sapere o svilimento della cultura.
Pari opportunità, pensammo, e non intendevamo negare le differenze naturali, non deliravamo di un improponibile “egualitarismo dei cervelli”. Volevamo semplicemente restituire il maltolto ai tanti che avevano sempre pagato il conto ai pochi che per tradizione, nascita e reddito occupavano da sempre il posto di medico condotto, deputato e farmacista.
Sostenevamo con sfrontata semplicità un principio che brucia ancora sulla pelle degli sconfitti di allora, tornati da un po’ vincitori: il merito si guadagna sul campo e sul campo si sta ad armi pari.
Volemmo – ed era sacrosanto – scardinare l’ordine gerarchico ereditato dal fascismo, rimediare a quella distorsione della saggezza popolare per la quale pareva naturale poter dire “ognuno al suo posto“, ma naturale non era. Non era, non poteva essere naturale che l’operaio rinascesse operaio, il medico tornasse medico di generazione in generazione e così via, in una società in cui “il popolo è sovrano“ ma ognuno fa i conti con la nascita, il censo, il ventaglio delle opportunità che si stringe o si allarga non solo per le differenti doti delle diverse scimmie antropomorfe, ma per le leggi infrangibili che separavano tra loro le classi sociali.
Questo volemmo. E ci muovemmo insieme. Sarà che il saggio di profitto consentiva al capitale una politica dilatoria di riforme che solo marginalmente ponevano mano alle “strutture“, sarà che la forza del movimento divenne un fiume in piena e un’antica malizia consigliò il compromesso, sta di fatto che in un breve volger d’anni la repubblica prese a rompere col passato fascista, ebbe una sua scuola e l’università aprì le porte ai figli dei lavoratori. Non avvenne a caso e non fu concessione: ci guadagnammo tutto con la lotta. Mai come in quegli anni il Paese era cresciuto sul terreno dei diritti e della civiltà; la società era cambiata sotto l’onda d’urto della rivoluzione femminile, dello scontro vittorioso sul diritto di famiglia, della caduta del fortilizio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e della legalizzazione dell’aborto. Il potere, però, quello che conta davvero, quello non lo toccammo. Le illusioni del “centrosinistra storico“ si infransero contro l’abilità e i legami internazionali della Democrazia Cristiana, contro la paura causata dal “tintinnare di sciabole“, contro il golpismo, la strategia della tensione, i ritardi storici e gli oggettivi tradimenti del PCI.
Le forze della conservazione hanno lavorato per decenni a svuotare di contenuti le conquiste anche solo riformiste. La scuola di massa è stata volutamente massificata senza alcun tentativo di adeguamento alla nuova funzione e all’università i “baroni“ hanno lentamente ripreso in pugno la situazione. Quello che poteva, voleva e doveva essere “qualità“ s’è ridotto fatalmente alla dimensione penosa della “quantità“ e tutto è sotto tiro. Un securitarismo da due soldi chiama alla mente tentazioni proibizioniste e si pasce d’una istigazione forcaiola a chiedere per tutto repressione e galera. Forse e è vero. Da insegnanti ci siamo persi tra passato e futuro e non abbiamo saputo leggere chiaramente il presente. E tuttavia, che oggi, si punti il dito sulla “scuola dei sessantottini“ è fuori dalla storia, rovescia la logica che lega gli eventi e trasforma in causa quello ch’è stato chiaramente effetto. Il declino del sistema formativo segue il corso fatale degli eventi e chiude il circolo vizioso aperto dalla deregolazione, dalla santificazione della legge del profitto – intesa come principio etico fondante e misura del valore dell’uomo – dalla crescente produzione di falsi bisogni, dall’affermazione del pensiero unico e dell’uomo a una dimensione.
In questa sorta di “orwelliano 1984”, Israel, Galli Della Loggia, Brunetta e quanti provengono dai ruoli di quella università che ha triplicato gli ordinari a danno degli studenti dovrebbero avere il buon senso e la dignità di tacere. Il fatto è che la dignità s’è persa nel mercato delle vacche che qualcuno si azzarda ancora a chiamare accademia e da questa gente non c’è nulla di buono da sperare.
Noi docenti non abbiamo scelta. Uniamoci ai precari e a tutti quelli che pagano sulla propria pelle i costi della crisi e imponiamo con ogni mezzo lecito, anche il più estremo, non una rinnovata “sala della pallacorda”, ma il semplice ritorno alla legalità costituzionale. E se alla legalità si vorrà opporre la forza, attrezziamoci per lo scontro. Non c’è altra via e non c’è altra scuola da costruire. Importa poco se i tanti “geni” che pontificano a pagamento prenderanno a suonare il refrain della “conservazione dell’esistente“. Noi non saremo umili – l’umiltà è la rovina di chi lavora – e non staremo zitti. Ci hanno insegnato a tenere in onore le leggi e a rispettare quelle che son giuste (quelle, cioè, che sono la forza dei deboli). Se ci impongono, però, regole ingiuste che saziano il sopruso del forte, è bene si sappia: siamo disposti a batterci fino in fondo perché siano cambiate. Troviamo l’animo per dichiararlo: non le rispetteremo queste vostre leggi e lo diciamo chiaro: “Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo di valori, il razzismo, le guerre coloniali“. E’ tempo di scelte definitive. Prendetela pure per una minaccia bolscevica, ma badate bene: sono solo parole d’un prete. Don Milani.
Ce l’avevano lasciata i nostri nonni ch’era ancora più o meno fascista, nonostante “Bella ciao” e i fuochi vittoriosi della guerra partigiana, e di là siamo nati alle nostre prime lotte, di là, da un antifascismo che s’è perso per strada, suscitato da privilegi da cancellare e da privilegiati da mettere a tacere, da una discriminazione tra classi sociali che aveva la ferocia d’un razzismo tra pari e annichiliva la sovranità popolare sulla linea del censo. Non l’antifascismo sclerotizzato nelle corone d’alloro e della retorica sciropposa delle “feste civili“ e dello stanco rituale repubblicano.
Da studenti iniziammo chiedendo “voce in capitolo“ e un “rappresentante di classe“, ponemmo poi questioni di democrazia, ci convincemmo che la selezione la fa la natura darvinista – e quella basta e avanza – e ci opponemmo all’esame d’avviamento professionale che separava alla base il povero dal ricco e ti marchiava all’origine come manovalanza.
Scuola di massa, dicemmo. E non voleva dire massificazione del sapere o svilimento della cultura.
Pari opportunità, pensammo, e non intendevamo negare le differenze naturali, non deliravamo di un improponibile “egualitarismo dei cervelli”. Volevamo semplicemente restituire il maltolto ai tanti che avevano sempre pagato il conto ai pochi che per tradizione, nascita e reddito occupavano da sempre il posto di medico condotto, deputato e farmacista.
Sostenevamo con sfrontata semplicità un principio che brucia ancora sulla pelle degli sconfitti di allora, tornati da un po’ vincitori: il merito si guadagna sul campo e sul campo si sta ad armi pari.
Volemmo – ed era sacrosanto – scardinare l’ordine gerarchico ereditato dal fascismo, rimediare a quella distorsione della saggezza popolare per la quale pareva naturale poter dire “ognuno al suo posto“, ma naturale non era. Non era, non poteva essere naturale che l’operaio rinascesse operaio, il medico tornasse medico di generazione in generazione e così via, in una società in cui “il popolo è sovrano“ ma ognuno fa i conti con la nascita, il censo, il ventaglio delle opportunità che si stringe o si allarga non solo per le differenti doti delle diverse scimmie antropomorfe, ma per le leggi infrangibili che separavano tra loro le classi sociali.
Questo volemmo. E ci muovemmo insieme. Sarà che il saggio di profitto consentiva al capitale una politica dilatoria di riforme che solo marginalmente ponevano mano alle “strutture“, sarà che la forza del movimento divenne un fiume in piena e un’antica malizia consigliò il compromesso, sta di fatto che in un breve volger d’anni la repubblica prese a rompere col passato fascista, ebbe una sua scuola e l’università aprì le porte ai figli dei lavoratori. Non avvenne a caso e non fu concessione: ci guadagnammo tutto con la lotta. Mai come in quegli anni il Paese era cresciuto sul terreno dei diritti e della civiltà; la società era cambiata sotto l’onda d’urto della rivoluzione femminile, dello scontro vittorioso sul diritto di famiglia, della caduta del fortilizio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e della legalizzazione dell’aborto. Il potere, però, quello che conta davvero, quello non lo toccammo. Le illusioni del “centrosinistra storico“ si infransero contro l’abilità e i legami internazionali della Democrazia Cristiana, contro la paura causata dal “tintinnare di sciabole“, contro il golpismo, la strategia della tensione, i ritardi storici e gli oggettivi tradimenti del PCI.
Le forze della conservazione hanno lavorato per decenni a svuotare di contenuti le conquiste anche solo riformiste. La scuola di massa è stata volutamente massificata senza alcun tentativo di adeguamento alla nuova funzione e all’università i “baroni“ hanno lentamente ripreso in pugno la situazione. Quello che poteva, voleva e doveva essere “qualità“ s’è ridotto fatalmente alla dimensione penosa della “quantità“ e tutto è sotto tiro. Un securitarismo da due soldi chiama alla mente tentazioni proibizioniste e si pasce d’una istigazione forcaiola a chiedere per tutto repressione e galera. Forse e è vero. Da insegnanti ci siamo persi tra passato e futuro e non abbiamo saputo leggere chiaramente il presente. E tuttavia, che oggi, si punti il dito sulla “scuola dei sessantottini“ è fuori dalla storia, rovescia la logica che lega gli eventi e trasforma in causa quello ch’è stato chiaramente effetto. Il declino del sistema formativo segue il corso fatale degli eventi e chiude il circolo vizioso aperto dalla deregolazione, dalla santificazione della legge del profitto – intesa come principio etico fondante e misura del valore dell’uomo – dalla crescente produzione di falsi bisogni, dall’affermazione del pensiero unico e dell’uomo a una dimensione.
In questa sorta di “orwelliano 1984”, Israel, Galli Della Loggia, Brunetta e quanti provengono dai ruoli di quella università che ha triplicato gli ordinari a danno degli studenti dovrebbero avere il buon senso e la dignità di tacere. Il fatto è che la dignità s’è persa nel mercato delle vacche che qualcuno si azzarda ancora a chiamare accademia e da questa gente non c’è nulla di buono da sperare.
Noi docenti non abbiamo scelta. Uniamoci ai precari e a tutti quelli che pagano sulla propria pelle i costi della crisi e imponiamo con ogni mezzo lecito, anche il più estremo, non una rinnovata “sala della pallacorda”, ma il semplice ritorno alla legalità costituzionale. E se alla legalità si vorrà opporre la forza, attrezziamoci per lo scontro. Non c’è altra via e non c’è altra scuola da costruire. Importa poco se i tanti “geni” che pontificano a pagamento prenderanno a suonare il refrain della “conservazione dell’esistente“. Noi non saremo umili – l’umiltà è la rovina di chi lavora – e non staremo zitti. Ci hanno insegnato a tenere in onore le leggi e a rispettare quelle che son giuste (quelle, cioè, che sono la forza dei deboli). Se ci impongono, però, regole ingiuste che saziano il sopruso del forte, è bene si sappia: siamo disposti a batterci fino in fondo perché siano cambiate. Troviamo l’animo per dichiararlo: non le rispetteremo queste vostre leggi e lo diciamo chiaro: “Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo di valori, il razzismo, le guerre coloniali“. E’ tempo di scelte definitive. Prendetela pure per una minaccia bolscevica, ma badate bene: sono solo parole d’un prete. Don Milani.
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