mercoledì 30 settembre 2009

Piano C.A.S.E., casette piccole e prezzi alle stelle.


E’ stato presentato il 28 settembre a L’Aquila, nel corso di un apposito Convegno, uno studio degli urbanisti Vezio De Lucia e George Josef Frisch sulla ricostruzione della città de L’Aquila.
Si tratta di un rapporto di 25 pagine nel quale, dopo una premessa dedicata alle caratteristiche socio-economiche e urbanistiche della città, viene sviluppata una approfondita analisi di quanto sta succedendo dopo il terremoto.
Dallo studio dei due urbanisti emerge la sostanza della politica della ricostruzione targata Berlusconi.
L’ansia propagandistica di dimostrare di essere il più bravo e il più veloce di tutti gli altri Presidenti del Consiglio, sta facendo della città de L’Aquila, una città senza centro storico, priva della sua storia e della sua identità, circondata dalle nuove periferie anonime volute dal Piano C.A.S.E.
Lo studio di De Lucia e Frisch analizza anche i costi della ricostruzione per concludere che, rispetto alla ricostruzione tradizionalmente intesa, vedi il modello friulano e il modello umbro, la spesa necessaria a realizzare il Piano C.A.S.E. è fortemente più elevata. Si stanno costruendo case non solo più piccole di un terzo di quelle andate distrutte, ma lo si sta facendo al costo di un appartamento di lusso.

martedì 29 settembre 2009

Honduras verso la fine dell'incubo.


È difficile pensare a un gorilla più gorilla di Roberto Micheletti, il dittatore di Bergamo alta, acclamato dal TG2 (per il quale paghiamo il canone) per il suo golpe e le sue violazioni dei diritti umani a Tegucigalpa. Tanto più la sua ora si avvicina alla fine, tanto più lui, uomo tutto d’un pezzo, non fa un passo indietro e dimostra, per esempio, di non aver mai sentito parlare di inviolabilità di sedi diplomatiche facendo assaltare quella brasiliana.
Da quando il presidente legittimo Manuel Zelaya è tornato in patria, ospitato dall’Ambasciata del Brasile, ne ha fatte di tutti i colori. Ha represso, tanto per cambiare, selvaggiamente l’opposizione indurendo i contorni già sinistri di una dittatura difesa solo da un’internazionale nera che va dalle lobby del partito repubblicano statunitense al governo peruviano di Alan García all’ “Associazione bergamaschi nel mondo”. Una dittatura che fa solo strepitare l’imbelle diplomazia internazionale che da tre mesi lo isola ma non lo costringe alla resa, mentre invece la Resistenza al golpe, pur pagando prezzi altissimi, non fa un passo indietro.
Non bastava lo stato d’assedio a Micheletti. Ha bombardato con gas lacrimogeni l’ambasciata del Brasile, minacciando d’invaderla come fosse l’ayatollah Khomeini. Quindi, come probabilmente si comporta con i suoi dipendenti, lui grande imprenditore, ha dato gli otto giorni nientemeno che all’Ambasciatore del Brasile che osa ospitare nella sua sede il presidente legittimo Manuel Zelaya.
Di passaggio ha espulso la delegazione dell’Organizzazione degli Stati Americani. Quindi ha indurito lo stato d’assedio stesso (chiedendo scusa per i fastidi ai cittadini bene dell’Honduras) e di passaggio ha fatto chiudere un altro gruppetto di radio e tivù (Radio Globo, Canal 36) che continuavano a trasmettere notizie su un Honduras non completamente pacificato.Infine si è ulteriormente preso poteri speciali e come ciliegina sulla torta ha sospeso per 45 giorni una buona metà della sacra Costituzione dell’Honduras. È quella stessa inviolabile carta costituzionale scritta nel 1982 dal dittatore Policarpo Paz e in difesa della sacralità della quale fu costretto controvoglia al colpo di stato il 28 giugno. Stato d’assedio e Costituzione sospesa in un paese dove, secondo i media governativi, in perfetta normalità si sta svolgendo la campagna elettorale per le elezioni presidenziali (che la comunità internazionale non riconoscerà e alla quale non parteciperanno osservatori internazionali dell’ONU, OSA, UE) previste tra un mese esatto.

lunedì 28 settembre 2009

Elezioni tedesche: al potere ancora democristiani e liberali.


I tedeschi hanno promosso Angela Merkel ma non la Grande Coalizione. Le elezioni politiche di domenica in Germania, contrassegnate dal più basso tasso di affluenza del dopoguerra (ha votato il 72,5%. Nel 2005 era stata del 77,7%, già allora un record negativo. Nel 2002 fu del 79,1%), riconsegnano nelle mani della cancelliera cristiano-democratica (l'Unione Cdu/Csu ottiene il 33,8%) le redini del governo per i prossimi quattro anni, ma promuovono al suo fianco i liberaldemocratici (Fdp) e bocciano, senza pietà, i socialdemocratici (Spd). La coalizione nero-gialla rispecchia esattamente il desiderio di Merkel che, subito dopo il voto, ha dichiarato soddisfatta: «Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo», possiamo governare il Paese «con una solida maggioranza».
FRANA LA SPD - Altrettanto, se non più soddisfatto, il leader Fdp (14,6%), Guido Westerwelle, consapevole della «grande responsabilità» del suo partito, che ottiene il «miglior risultato nella sua storia». I socialdemocratici sono i grandi perdenti di questo voto, mai così in basso dal dopoguerra (23%). E lo ammettono subito. Frank-Walter Steinmeier, aspirante cancelliere per la Spd, riconosce «un'amara sconfitta», ma si candida a guidare l'opposizione al Bundestag. Anche gli altri due partiti minori, che restano all'opposizione come nella passata legislatura, guadagnano consensi: tanto la sinistra della Linke che i Verdi ottengono percentuali a due cifre, il 11,9% i primi, il 10,7% i secondi.
LA CANCELLIERA - «Voglio essere la cancelliera di tutti i tedeschi, per migliorare la situazione del nostro Paese», ha detto Merkel, 55 anni, primo capo del governo donna e primo proveniente dall'ex Ddr. Con una maggioranza di 323 seggi (la maggioranza è di 309) la coalizione nero-gialla torna alla guida dell’esecutivo dopo 11 anni, dall'epoca di Helmuth Kohl che, pochi giorni fa, era sceso in campo per sostenere questa opzione. Numerosi dossier economici attendono il governo Merkel II, fra cui il previsto aumento della disoccupazione, la crescita del deficit, le difficoltà nel settore scolastico e sanitario. L'impegno in Afghanistan sarà un altro dossier delicato, così come quello energetico ambientale, con la volontà dei due partiti di rivedere l’abbandono del nucleare.

La scuola moderna e la minaccia bolscevica

Dal blog di Giuseppe Aragno

Cos’è la scuola se non lo specchio d’una Waterloo? Cosa, mi chiedo, se non il luogo privilegiato delle contraddizioni, dei limiti, delle mille zone d’ombra che oscurano il futuro d’una società che rischia di implodere e trascinare nella rovina quanto abbiamo costruito di onesto e civile in centocinquant’anni di storia?
Ce l’avevano lasciata i nostri nonni ch’era ancora più o meno fascista, nonostante “Bella ciao” e i fuochi vittoriosi della guerra partigiana, e di là siamo nati alle nostre prime lotte, di là, da un antifascismo che s’è perso per strada, suscitato da privilegi da cancellare e da privilegiati da mettere a tacere, da una discriminazione tra classi sociali che aveva la ferocia d’un razzismo tra pari e annichiliva la sovranità popolare sulla linea del censo. Non l’antifascismo sclerotizzato nelle corone d’alloro e della retorica sciropposa delle “feste civili“ e dello stanco rituale repubblicano.
Da studenti iniziammo chiedendo “voce in capitolo“ e un “rappresentante di classe“, ponemmo poi questioni di democrazia, ci convincemmo che la selezione la fa la natura darvinista – e quella basta e avanza – e ci opponemmo all’esame d’avviamento professionale che separava alla base il povero dal ricco e ti marchiava all’origine come manovalanza.
Scuola di massa, dicemmo. E non voleva dire massificazione del sapere o svilimento della cultura.
Pari opportunità, pensammo, e non intendevamo negare le differenze naturali, non deliravamo di un improponibile “egualitarismo dei cervelli”. Volevamo semplicemente restituire il maltolto ai tanti che avevano sempre pagato il conto ai pochi che per tradizione, nascita e reddito occupavano da sempre il posto di medico condotto, deputato e farmacista.
Sostenevamo con sfrontata semplicità un principio che brucia ancora sulla pelle degli sconfitti di allora, tornati da un po’ vincitori: il merito si guadagna sul campo e sul campo si sta ad armi pari.
Volemmo – ed era sacrosanto – scardinare l’ordine gerarchico ereditato dal fascismo, rimediare a quella distorsione della saggezza popolare per la quale pareva naturale poter dire “ognuno al suo posto“, ma naturale non era. Non era, non poteva essere naturale che l’operaio rinascesse operaio, il medico tornasse medico di generazione in generazione e così via, in una società in cui “il popolo è sovrano“ ma ognuno fa i conti con la nascita, il censo, il ventaglio delle opportunità che si stringe o si allarga non solo per le differenti doti delle diverse scimmie antropomorfe, ma per le leggi infrangibili che separavano tra loro le classi sociali.
Questo volemmo. E ci muovemmo insieme. Sarà che il saggio di profitto consentiva al capitale una politica dilatoria di riforme che solo marginalmente ponevano mano alle “strutture“, sarà che la forza del movimento divenne un fiume in piena e un’antica malizia consigliò il compromesso, sta di fatto che in un breve volger d’anni la repubblica prese a rompere col passato fascista, ebbe una sua scuola e l’università aprì le porte ai figli dei lavoratori. Non avvenne a caso e non fu concessione: ci guadagnammo tutto con la lotta. Mai come in quegli anni il Paese era cresciuto sul terreno dei diritti e della civiltà; la società era cambiata sotto l’onda d’urto della rivoluzione femminile, dello scontro vittorioso sul diritto di famiglia, della caduta del fortilizio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e della legalizzazione dell’aborto. Il potere, però, quello che conta davvero, quello non lo toccammo. Le illusioni del “centrosinistra storico“ si infransero contro l’abilità e i legami internazionali della Democrazia Cristiana, contro la paura causata dal “tintinnare di sciabole“, contro il golpismo, la strategia della tensione, i ritardi storici e gli oggettivi tradimenti del PCI.
Le forze della conservazione hanno lavorato per decenni a svuotare di contenuti le conquiste anche solo riformiste. La scuola di massa è stata volutamente massificata senza alcun tentativo di adeguamento alla nuova funzione e all’università i “baroni“ hanno lentamente ripreso in pugno la situazione. Quello che poteva, voleva e doveva essere “qualità“ s’è ridotto fatalmente alla dimensione penosa della “quantità“ e tutto è sotto tiro. Un securitarismo da due soldi chiama alla mente tentazioni proibizioniste e si pasce d’una istigazione forcaiola a chiedere per tutto repressione e galera. Forse e è vero. Da insegnanti ci siamo persi tra passato e futuro e non abbiamo saputo leggere chiaramente il presente. E tuttavia, che oggi, si punti il dito sulla “scuola dei sessantottini“ è fuori dalla storia, rovescia la logica che lega gli eventi e trasforma in causa quello ch’è stato chiaramente effetto. Il declino del sistema formativo segue il corso fatale degli eventi e chiude il circolo vizioso aperto dalla deregolazione, dalla santificazione della legge del profitto – intesa come principio etico fondante e misura del valore dell’uomo – dalla crescente produzione di falsi bisogni, dall’affermazione del pensiero unico e dell’uomo a una dimensione.
In questa sorta di “orwelliano 1984”, Israel, Galli Della Loggia, Brunetta e quanti provengono dai ruoli di quella università che ha triplicato gli ordinari a danno degli studenti dovrebbero avere il buon senso e la dignità di tacere. Il fatto è che la dignità s’è persa nel mercato delle vacche che qualcuno si azzarda ancora a chiamare accademia e da questa gente non c’è nulla di buono da sperare.
Noi docenti non abbiamo scelta. Uniamoci ai precari e a tutti quelli che pagano sulla propria pelle i costi della crisi e imponiamo con ogni mezzo lecito, anche il più estremo, non una rinnovata “sala della pallacorda”, ma il semplice ritorno alla legalità costituzionale. E se alla legalità si vorrà opporre la forza, attrezziamoci per lo scontro. Non c’è altra via e non c’è altra scuola da costruire. Importa poco se i tanti “geni” che pontificano a pagamento prenderanno a suonare il refrain della “conservazione dell’esistente“. Noi non saremo umili – l’umiltà è la rovina di chi lavora – e non staremo zitti. Ci hanno insegnato a tenere in onore le leggi e a rispettare quelle che son giuste (quelle, cioè, che sono la forza dei deboli). Se ci impongono, però, regole ingiuste che saziano il sopruso del forte, è bene si sappia: siamo disposti a batterci fino in fondo perché siano cambiate. Troviamo l’animo per dichiararlo: non le rispetteremo queste vostre leggi e lo diciamo chiaro: “Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo di valori, il razzismo, le guerre coloniali“. E’ tempo di scelte definitive. Prendetela pure per una minaccia bolscevica, ma badate bene: sono solo parole d’un prete. Don Milani.

mercoledì 23 settembre 2009

1 milione e 150 mila in piazza a l'Havana per il Concerto della Pace.



Che piaccia o no, il megaconcerto di ieri, 20 settembre, nella Plaza de la Revolución all’Avana, è stato un vero successo: 15 interpreti assai popolari, fra cui il nostro Jovanotti, Silvio Rodríguez, Miguel Bosé, la portoricana Olga Tañón, Víctor Manuel, gli Orishas (il gruppo cubano che lavora all’estero e che da anni non tornava a casa), Amaury Pérez, X Alfonso, il grande Juan Formell con i suoi Van Van ed altri, hanno animato le cinque ore di musica, sotto un sole implacabile, riuniti intorno all’iniziativa del colombiano Juanes che vuole fare della musica un potente strumento di pace.


Quando Juanes ha organizzato un concerto alla frontiera fra Venezuela e Colombia, una frontiera bruciante e rischiosa, e l’ha chiamato “Paz sin fronteras”, gli elogi per l’iniziativa si sono sprecati. Questa volta, invece, l’idea di scegliere la Plaza de la Revolución –un luogo assai simbolico per l’America Latina, con il mural del Che in fondo, ha suscitato scandalo, rabbia, una battaglia dei mass media davvero massiccia e senza esclusione di colpi. I dischi di Juanes sono stati fracassati nella pubblica via a Miami, dove il cantante colombiano vive e dove sua moglie, in attesa del terzo figlio, ha dovuto sostenere il peso di un ostracismo così violento. Neanche la grande popolarità dell’autore di “Camisa negra” è riuscita a sedare gli animi dell’esilio cubano a Madrid, a New York e dovunque si sia stabilita una comunità di transfughi dall’isola. I motivi di una rabbia così sfrenata appaiono evidenti: il concerto di ieri, davanti a un milione e centocinquantamila spettatori che hanno sopportato con allegria l’implacabile sole del pomeriggio, è stato un grande successo per la musica, per la gestione intelligente dei cubani e del ministro della Cultura Abel Prieto, per l’affiatamento dei musicisti provenienti da diverse parti del mondo ispanico.

L’evento è stato trasmesso in diretta dalla catena di televisione Cuatro e anche se il servizio d’ordine –come sempre a Cuba nelle grandi manifestazioni di massa- è stato severo, tutto si è svolto nel migliore dei modi.

I quindici artisti hanno cantato gratis e gli organizzatori, Juanes in testa, si sono accollati le spese per gli impianti mentre Cuba offriva alloggi e organizzazione. E proprio per risparmiare qualcosa, il concerto si è svolto di giorno, all’implacabile luce del sole che però non ha scoraggiato un pubblico enorme. Un malevolo commentatore, su “El País”, ha intitolato che “la montagna ha partorito un topolino”, affermando che il pubblico era costituito tutto da militanti e lavoratori intruppati nei camion e portati per forza. Davvero confortante pensare che all’Avana ci sia ancora un milione e passa di militanti!

Nella grande piazza dominava il colore bianco, bianco della pace, e tutti i ritmi della musica caraibica e, per chiudere il concerto, tutte e quindici le star del mondo ispanico hanno lasciato il posto alla voce calda, allegra, sfottente del grande Compay Segundo e del suo “Chan chan”. Dall’ oltre tomba, fumando il suo interminabile sigaro, quel vecchio adorabile se la sarà goduta.

domenica 13 settembre 2009

Appello contro l'apertura di una sede di CasaPound in Val d'Aosta


Pubblico volentieri l’appello sottoscritto da numerose associazioni, partiti e personalità della società civile valdostana contro l’apertura di una sede di CasaPound in Valle d’Aosta. CasaPound è un’associazione che si richiama a Mussolini e al fascismo (non esplicitamente: non potrebbe esistere legalmente, né tanto meno raccogliere i soldi del 5 per 1000); che cosa significhi fascismo dovrebbe essere ormai chiaro per tutt*, ma come studente di Scienze Politiche so benissimo che peso ha in Italia lo studio della storia.

Lo scorso 3 luglio alcuni attivisti hanno distribuito un volantino. La fotografia parla da sé: si tratta della “fascistissima” architettura dell’ex piazza del Popolo di Aosta, oggi piazza della Repubblica. Anche le parole d’ordine son tutto un programma, con il termine «rabbia», di per sé non per forza negativo, che però in questo caso mi fa pensare a «violenza».

E’ necessario che tutt* sappiano con chiarezza che cosa si nasconde dietro a parole e battaglie legittime che costituiscono il volto accattivante della nuova destra. Oggi, infatti, i militanti di CasaPound si battono in lotte tradizionalmente “di sinistra” (acqua pubblica, una casa per tutti, part time a stipendio intero per le neomamme lavoratrici), ma oltre queste battaglie, per sentite o di facciata che siano (e comunque rivolte solo agli italiani, perché secondo CasaPound gli stranieri vanno espulsi), c’è l’ideologia mortifera e de-umanizzante del fascismo.


Appello della società valdostana contro CasaPound

Noi associazioni, Partiti, movimenti e cittadini antifascisti esprimiamo viva preoccupazione rispetto all’annunciata apertura in Valle d’Aosta di una sezione di CasaPound Italia.

Si tratta di un’offesa al nostro ordinamento repubblicano e democratico, frutto del sacrificio della Resistenza antifascista.

CasaPound è, infatti, un’associazione che ha chiari riferimenti nell’ideologia mortifera del Fascismo, propone la riscrittura della nostra Costituzione, inneggia a Mussolini e solidarizza con l’ex terrorista nero Luigi Ciavardini.

Ci appelliamo alle istituzioni, affinché garantiscano il rigoroso rispetto della legalità repubblicana, considerati i problemi all’ordine pubblico dovuti all’apertura in altre città di sedi di CasaPound.

Ci appelliamo a tutti coloro che si riconoscono nella Costituzione italiana e nello Statuto della Regione autonoma Valle d’Aosta, affinché si attivino per la difesa e la promozione dei valori e dei principi della democrazia e dell’antifascismo.

I firmatari: Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta/Institut d’histoire de la Résistance et de la société contemporaine en Vallée d’Aoste (e, a titolo individuale, Ida Desandré, deportata nei lager nazisti), ANPI, ARCI, ACLI, Legambiente, Partito della Rifondazione Comunista, Associazione Valdostana Loris Fortuna, Vda Vive, Partito dei Comunisti Italiani, Movimento Verdi Alternativi, Giornalisti contro il razzismo VdA, Comitato amici del Viale della Pace, Partito Democratico, Italia dei Valori, Renouveau Valdôtain, Arci-Gay, Sinistra Valdostana.

sabato 12 settembre 2009

Il Governo non trascura il sud, parola di Scajola... ma il Premier dov'è? Ai funerali di Mike Buongiorno


Alla tradizionale fiera del Levante, che rappresenta un’occasione per il governo di riflettere sulle proprie politiche economiche, e per aggiornare il popolo sulle politiche di sviluppo del sud, Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico ha lanciato l’ennesimo spot elettorale… Il governo non trascurerà il Mezzogiorno. Il ministro ha annunciato la disponibilità di 90 miliardi di euro per lo sviluppo del Mezzogiorno. "Ai primi di agosto abbiamo approvato il piano di sviluppo in Sicilia", ha detto il ministro per lo Sviluppo economico. "Proseguiremo con le altre regioni: rafforzamento degli investimenti in infrastrutture; programmi di sostegno alle attività produttive e all'occupazione; rafforzamento del credito e della ricerca".
Il governo non trascurerà il mezzogiorno, ma dov’è il Premier? Impegnato ai funerali di Mike Buongiorno, un impegno istituzionale al quale non poteva proprio mancare. Non poteva certo esserci un rappresentante del governo qualsiasi… cribbio!
Parole, quelle del ministro Scajola, che non hanno convinto però né il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola ("Ci dispiace non avere in Fiera il presidente del Consiglio"), né il sindaco che lamenta al premier il tradimento di una tradizione: "La pur doverosa presenza del presidente del Consiglio ai funerali di Mike Buongiorno - ha detto con amarezza Emiliano - non credo possa giustificare la sua assenza a Bari: eravamo anche disposti a spostare l'orario della cerimonia. Ma ..."
"Scajola ha annunciato che le infrastrutture del Sud verranno realizzate con i soldi dei Fas (i Fondi per le aree sottosviluppate destinati per l'85% al Sud), che ci hanno portato via un anno fa. Bene che vada si tratta allora di una provocazione; nel peggiore dei casi siamo invece di fronte ad un’altra serie di promesse.

martedì 8 settembre 2009

Renzo Bossi guadagna 24000 euro al mese...



Il carroccio ha impostato per anni la propria propaganda demagogica su tematiche quali gli sprechi all'italiana, Roma ladrona e, non da ultimo, i casi di nepotismo in alcuni settori - l'università, gli studi notarili, la politica stessa, giusto per fare qualche esempio.
Non c'è stato un cambio di rotta, questo è certo: sono i cavalli da battaglia di sempre.
Si può invece parlare di incoerenza guardando ai favoritismi che hanno più volte toccato Renzo Bossi, il figlio del leader Umberto, passato alla cronaca prima per essere stato bocciato tre volte all'esame di maturità (quest'anno, infine, è riuscito a farcela. Proprio nello stesso anno in cui, stando alle parole della Gelmini, è aumentato il numero dei bocciati - cos'è, uno scambio di ostaggi?), poi per aver creato su Facebook il famoso gioco Rimbalza il clandestino (articolo de La Repubblica).
Insomma, certamente non per qualche incredibile prodigio di merito e competenza - parole tanto sbandierate negli ultimi tempo dal governo, probabilmente vuote di qualsivoglia significato.
Il giovane talentuoso ha ricevuto vitto direttamente a spese dei contribuenti, nonostante sia al pari di qualsiasi di essi: una volta si è presentato al ristorante della Camera (riservato - per i pochi che non lo sapessero - ai soli parlamentari) insieme al padre, che accompagnava. E in virtù di questo è stato chiuso un occhio. Una seconda volta, al contrario, si è presentato persino da solo: passava per Roma e ha ben pensato di scambiare la mensa di Montecitorio a quella della Caritas. Fatto accomodare, presentato il menù, servito e riverito.
Non bastasse, poco tempo fa è stato creato dal nulla un nuovo osservatorio all'Expo di Milano - non si sa per quali ragioni e non si sa per merito di chi -, nel quale il nostro - anche per questo: non si sa per quali ragioni e non si sa per merito di chi - è entrato magicamente a farne parte. La paga? Dodicimila euro mensili. È giusto l'intervento di Sandra Amurri, che in un articolo de L'Antefatto si domanda "attraverso quali canali di reclutamento e in ossequio a quali criteri" è stata possibile una cosa del genere.
Sul finale, le notizia che da oggi rimbalza sulla rete: stando alle parole di Travaglio, il nostro delfino è stato scelto come portaborse al Parlamento europeo da Francesco Speroni, collega e amico del padre. Anche qui, stessa busta paga: per i portaborse europei sembra che ci si aggiri intorno ai dodicimila euro al mese.
Insomma, si prospetta un bel futuro per un ragazzo appena diplomatosi, con l'unico merito di esserci riuscito con tre anni di troppo. Alla faccia - come tutti ben sapranno - di tutti gli altri laureati (non diplomati) che resteranno a spasso e di tutti quelli che pagano la tasse.

lunedì 7 settembre 2009

Capitalism: A love story. Intervista a Michael Moore


Capitalism: A Love Story di Michael Moore era uno dei film più attesi della 66ma Mostra di Venezia. Il regista di Fahrenheit 9/11 questa volta se la prende con il sistema finanziario americano e ammonisce i paesi europei: “Non seguite il nostro esempio”. Si scaglia contro il capitalismo “un male che non può essere regolamentato” si afferma nel documentario, “bisognerebbe ritornare a un sistema democratico che non conceda poteri ai più ricchi ma che distribuisca le risorse”. Nella sua storia d'amore Moore parte dall'impero romano per arrivare subito agli anni Ottanta con Ronald Reagan, colui che sancì il matrimonio tra politica e potere finanziario, da lì il film procede verso la recente crisi economica. Ovviamente non poteva mancare l'attore preferito dal regista: W. Bush. Tra una scherno e l'altro, perché Moore diverte oltre a far riflettere, si infiltrano i poveri del ceto medio che vengono cacciati di casa per non aver adempiuto al pagamento delle spese sanitarie, le assicurazioni che speculano sulla morte dei clienti, gli immobiliaristi che cercano di trarre il maggiore profitto dalle vendite delle case appena sfrattate. Insomma ci racconta come il paese sia diventato una corporation e Wall Strett un luogo sacro.Come difendersi? Attraverso il voto, ci dice nel film, ma la maggior parte degli americani desiderano diventare ricchi, e per colpa di chi? C'entra il sogno americano?
“È come il gatto che si morde la coda. Ci sono degli aspetti positivi nel sogno americano, noi crediamo fermamente nella giustizia e nella democrazia, ma è difficile definire democratico un paese che gestisce la vita dei cittadini seguendo i principi economici. È la gente che dovrebbe tenere in mano le redini. Mi colpiscono quelle persone che lavorano duramente e che si vedono rovinare l'esistenza per colpa di persone che dovrebbero avere a cuore gli interessi della società”.

Perché ha intitolato il suo documentario A Love Story?
“Perché si tratta di una storia d'amore tra i banchieri e i soldi, i loro, ma soprattutto i nostri”.
È stato complicato realizzarlo?
“Sì, questa volta non avevo un cattivo con cui prendermela, la General Motors o Charlton Heston, un tema come le armi o la cattiva gestione sanitaria, dovevo parlare di filosofia economica. È stata una sfida, ma se non punto in alto mi annoio. E poi questa volta avevo dalla mia la maggior parte degli americani”.
Ha dovuto cambiare qualcosa nel corso della preparazione?
“È arrivata la crisi finanziaria, ma non era altro che una conferma di quello che stavo raccontando”.
Nel film parla positivamente del nostro paese, di Francia e Germania, non le sembra di idealizzare troppo l'Europa?
“So che avete un primo ministro un po' pazzoide, però nella vostra costituzione si dice apertamente che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, nella nostra non c'è scritto. Voi avete una società più strutturata, ovviamente non esente da difetti, quando qualcuno non paga il medico o il mutuo nessuno viene punito. Adoro il mio paese, per questo continuo a fare film che lo ritraggono, siamo delle brave persone e quindi quando ci ammaliamo dovremmo avere la possibilità di consultare il medico non di essere sbattuti fuori di casa”.
Perché non viene in Italia a girare un film su Berlusconi?
“Ci dovrebbe pensare un regista italiano, lo so cosa significa vergognarsi del proprio paese ma è un problema vostro e dovete trovare voi una soluzione”.Chi ci suggerisce come autore?
“Sabina Guzzanti è fantastica, vorrei seguirla in tournée, amo anche Roberto Benigni”.A un certo punto del film accade il miracolo, Obama vince le elezioni e le cose cominciano a cambiare, però alcune banche sostengono la sua campagna elettorale.
C'è da fidarsi di Obama?
“Per ora sono soddisfatto e fiducioso, Obama è stato sostenuto dalle banche non per il suo programma elettorale ma perché è stato considerato un potenziale vincitore. Adesso arriva la svolta, il presidente dovrà decidere se essere amico o nemico dei magnati della finanza. Staremo a vedere”.
Si parla anche di religione a un altro punto.
“Sì credo che Gesù sia stato un rivoluzionario, Marx non ha inventato nulla, qualsiasi entità religiosa invita a prendersi cura dei più sfortunati, dovremmo seguire l'esempio”.
Non esiste un capitalismo buono secondo lei?
No, è come dire che esiste una schiavitù buona, è il sistema che va cambiato, dovrebbe essere più democratico ovvero non seguire le leggi dettate dai più ricchi, lo diceva anche Roosveelt settant'anni fa nella sua seconda carta costituzionale, nessuno però gli ha dato retta: assistenza sanitaria ed educazione per tutti, fine dei monopoli e molto molto molto altro”.

domenica 6 settembre 2009

"Ombre rosse", cos'è diventata la sinistra in Italia?


Un film come “Ombre rosse”, che si propone di raccontare cosa è diventata la sinistra, cioè anche tutti noi, sollecita i commenti. Del resto la corposa presenza di sinistra ( sia pure cinefila), venuta a vedere il film di Citto Maselli qui a Venezia, ha dimostrato che, al di là dell’interesse per l’opera cinematografica, c’è un grande bisogno di riflettere su sè stessi e sul disastro cui siamo arrivati, nessuno davvero innocente. E ben venga dunque l’occasione di questa pellicola impietosa ma mai astiosa – è un merito di Citto – sempre pronta a sottolineare, anche nei peggiori, il barlume di qualche ragione. Al centro della storia, insomma, non ci sono i buoni e i cattivi, ma l’ambiguità complessa della situazione. (Che strano: Citto Maselli, nella vita sempre un po’ settario, magari per passione politica, quando è regista si trasforma).Il suo film, infatti, non giudica: coglie le sfumature, è uno squarcio problematico sullo scorcio storico dell’ultima sconfitta subìta per mano di Berlusconi, che si abbatte su tutti – inaspettata perché tutti sono ciechi. In questo senso assai più stimolante di una denuncia.La sinistra presente in sala l’ha capito e, salvo il fischio di qualche arrabbiato privo di dubbi sulla propria verità, è uscita dalla proiezione addirittura commossa. E subito infatti ha lasciato perdere il giochetto, che pure attira, di identificare chi c’è di realmente esistente dietro i volti del virtuale architetto Varga (certamente Massimiliano Fuksas); del prof. Siniscalchi (probabilmente Umberto Eco, ma c’è chi suggerisce Asor Rosa), del capo di gabinetto del sindaco (di sicuro Walter Verini). Nel film ci siamo tutti, in un modo o nell’altro.C’è soprattutto il Centro sociale “Cambiare il mondo” - una delle tante, preziose, realtà cresciute in questi ultimi decenni – i cui personaggi sono infatti scolpiti con più verità; e amore. Solo vittime di un sistema che vuole cooptarli e normalizzarli, magari persino con buone intenzioni, così come ha fatto con altri settori della sinistra? Sì e no. Neanche loro sono innocenti: sono buoni, pronti al sacrificio personale per misericordia, ricchi di carità e compassione umana prima e al di là della politica. E infatti, anche per questo, sono isolati, il Centro sociale sembra uno struggente fortino nel deserto, il famoso rapporto col “territorio” tanto invocato da Rifondazione comunista ma anche dal Pd, ridotto a quello con chi il territorio non ce l’ha, i rom, gli immigrati, gli emarginati di ogni specie. Non c’è intorno un quartiere, un contesto sociale, niente. Ed è proprio questa solitudine l’aspetto più dolente del film.Gli intellettuali che li visitano sono invece tutti “dentro” la società reale, ricchi di legami, inseriti. Quale dei due mondi è più reale? Stiamo ancora confrontandoci col dilemma riforme o rivoluzione, che per più di un secolo ha travagliato la sinistra, peraltro ormai sconfitta in ambedue le opzioni?A me, che sono un po’ veterocomunista, colpisce, non solo nel film ma anche nella realtà, l’esistenza ormai di due soli poli: da un lato gli idealisti che rifiutano ogni compromesso, dall’altro gli opportunisti. Possibile che sia scomparsa dal reale - e dunque anche dall’introspezione che ne fa questo film (così come altre espressioni artistiche ma anche storico-sociologiche) - la memoria di quel che per decenni è stato il comunismo che pure, in Italia in particolare,era riuscito a coniugare alterità con realismo, strategia radicale con razionale (e leninista) costruzione di alleanze, indicazione di obiettivi intermedi, di un itinerario possibile, insomma?La memoria (anche critica, per carità) si è persa. Mai come oggi c’è stata una rottura generazionale così profonda, un rifiuto così netto da parte dei giovani dell’esperienza del passato, il ‘900 considerato solo un cumulo di macerie e di orrori.Si capisce: questo passato è stato o conservato in forme sclerotiche, o frettolosamente abiurato. Nel film un tentativo diverso viene fatto dal vecchio sindacalista, che però è troppo vecchio e alla fine si ingarbuglia. Nessuno, né in “Ombre rosse” né nella realtà, sembra più disposto alla fatica che è stata dei comunisti,lasciando così sul campo solo idealisti sconfitti o navigatori pseudorealisti, altrettanto sconfitti. Anche nei partiti, o pezzi di partiti esistenti la dialettica sembra ormai ridotta a uno scontro fra questi due poli. Il film di Citto è dedicato all’amico e compagno (anche di scuola, suo e anche mio) Sandro Curzi. E’ stato lui infatti che, poco prima di morire, dopo averne visto la prima copia ancora in lavorazione, ha consigliato di non finire con l’immagine della sconfitta elettorale che lascia attoniti i protagonisti, oramai solo “ombre rosse”. E di aggiungere una sequenza “positiva”. Qualche ragazzo che si accosta ad un nuovo edificio abbandonato e ricoperto da erbacce per metter mano alla costruzione di una nuova sede per il Centro Sociale, dopo che la vecchia si è dovuta abbandonare.Sandro era un inguaribile ottimista. Non è un brutto difetto.
da Il Manifesto

sabato 5 settembre 2009

Israele sfida gli USA, via libera a nuovi insediamenti


Prima una nuova infornata di permessi di costruzione, poi - forse - la moratoria. Sembra essere questa, su uno sfondo di nuovi lampi di tensione con Washington, la risposta del premier israeliano, Benyamin Netanyahu, alle pressioni americane per un congelamento degli insediamenti ebraici in territorio palestinese: funzionale, negli auspici di Barack Obama, alla ripresa del processo di pace. Una risposta che mira a rassicurare i molti paladini del movimento dei coloni in seno alla sua maggioranza di governo (a forte impronta di destra). Ma che appare «totalmente inaccettabile» all'Autorità nazionale palestinese (Anp). E irrita la Ue e gli Usa fino al punto da spingere stasera la Casa Bianca a diffondere una nota ufficiale in cui si esprime rammarico rispetto all'ipotesi di consentire nuove costruzioni e si definisce questo approccio in contrasto con l'impegno americano a «creare un clima che favorisca i negoziati». Ad annunciare le intenzioni di Netanyahu era stata in precedenza una gola profonda interna al suo staff, citata in mattinata in forma anonima da tutti i principali media del Paese. La fonte ha anticipato senza mezzi termini la volontà del premier di dare il via libera a una sanatoria preventiva che riguarderà «alcune centinaia» di unità abitative, sparse per le colonie della Cisgiordania (dove già vivono 300.000 persone), prima di qualsiasi moratoria. Il numero esatto non è stato indicato, ma è chiaro - ha detto la fonte - che saranno permessi aggiuntivi rispetto ai 2.500 progetti edilizi già in costruzione sulla base di autorizzazioni rilasciate in passato. E questo senza contare gli insediamenti ebraici di Gerusalemme est (oltre 200.000 abitanti), annessa di fatto nel 1967, ma non riconosciuta come parte del territorio israeliano dalla comunità internazionale. Il segnale, sottolineano commentatori israeliani di ogni tendenza, è diretto al fronte interno: a quei deputati e ministri delle forze di destra (primo fra tutti il Likud, il partito dello stesso Netanyahu, cardine del governo) che non cessano di paventare come «un tradimento» ogni eventuale cedimento agli Usa sugli insediamenti. E sotto questo profilo qualche risultato pare già esserci se è vero che il ministro dell'Informazione, Yuli Edelstein, esponente del Likud protagonista nei giorni scorsi con altri colleghi di governo di una clamorosa visita di solidarietà ai coloni ultrà, non ha esitato a lodare le ultime indicazioni giunte dall'entourage del premier. «Netanyahu - ha detto Edelstein - sta dimostrando che si può mettere un punto alla disponibilità negoziale e che Israele non impedirà la crescita naturale (delle colonie) in Cisgiordania e continuerà a costruire lì». Il presidente dell'Anp, Abu Mazen (Mahmud Abbas), ha denunciato da Parigi come «inaccettabili» le intenzioni del premier israeliano e il capo negoziatore, Saeb Eerekat, ha avvertito che un'ulteriore ondata di permessi di costruzione annuncerebbe soltanto «il congelamento del processo di pace». Mentre anche l'Ue, per bocca di Javier Solana, ha ribadito più tardi la necessità di fermare ora gli insediamenti: senza eccezioni e senza ulteriori indugi. Yaariv Oppenheimer, del movimento pacifista israeliano Peace Now, ha sostenuto da parte sua che "il compromesso" che Netanyahu si mostra disposto ad accogliere appare in realtà «puramente virtuale» - un gesto di facciata studiato per aggirare un tema spinoso e spingere Washington a concentrarsi sui temuti piani nucleari dell'Iran - e «non fermerebbe i cantieri nelle colonie neppure per un giorno». Stando a indiscrezioni circolate nei giorni scorsi, un'intesa sugli insediamenti fra l'emissario americano per il Medio Oriente, George Mitchell, e Netanyahu - dopo molti colloqui e non poche frizioni - potrebbe essere sottoscritta la settimana prossima sulla base di un impegno israeliano a una moratoria di almeno 9-12 mesi: in vista di quel riavvio del processo di pace che Obama spera di far coincidere con un vertice a tre con Netanyahu e Abu Mazen a margine dell'assemblea generale dell'Onu del 23 settembre.
da L'Unità

giovedì 3 settembre 2009

VIDEOCRACY - 4 settembre

Come molti di voi ben sapranno, le televisioni si rifiutano di trasmettere il trailer (clicca qui per vederlo) del film Videocracy, ritenuto un'inammissibile critica al Governo. Sta dunque a noi cittadini ribellarci alla censura, fare qualcosa, qualsiasi cosa... anche piccola, ma concreta.

Non ci muoviamo in virtù del contenuto del film, dei personaggi che vi prendono parte e dei valori che trasmettono (nessuno di noi ancora l'ha visto). Noi lottiamo perché la censura su tutti i fronti, dai giornali alle Tv, sta trasformando la nostra Repubblica in una democrazia autoritaria che non permette ai suoi cittadini (o sudditi) di potere scegliere liberamente.

I blogger hanno deciso che il 3 Settembre non si volteranno dall'altra parte, subendo l'ennesimo sopruso; i blogger hanno deciso che il 3 Settembre parteciperanno alla giornata di "diffusione di massa" dell'oggetto della censura.

Il giorno è arrivato
Videocracy, domani nelle sale

Scuola e precari, monta la protesta



A macchia di leopardo, ma con la velocità di una pandemia. La protesta dei precari della scuola docenti e personale tecnico contro i tagli di cattedre e posti decisi dal governo sta montando con il passare dei giorni e le prime verifiche. Dal primo settembre, infatti, è iniziata la riffa che come ogni anno chiama una marea di aspiranti supplenti (alcuni in questa posizione da più di 20 anni) per vedere se c’è un posto disponibile da qualche parte, nella propria provincia o altrove. Il teatro può cambiare - una scuola a Roma, un palasport a Firenze, ecc. - ma la scena è la stessa. Avvilente già nella scenografia.
Le docenti arrampicatesi sul tetto dell’ufficio scolastico provinciale di Benevento sono ormai dopo soli tre giorni delle stelle di prima grandezza in questo firmamento. E i politici fanno a gara per salire su quel tetto e farsi fotografare con loro. Prima il beneventano Viespoli, poi il segretario del Pd Franceschini. Identico l’intento. Al punto che ieri hanno accolto l’ultimo visitatore con uno striscione eloquente: «Cari politici, turni di notte, non passerelle!».
Ma Catania, Palermo, Cagliari, Padova, Milano, Roma, Torino, ecc, offrono un quadro anche più mosso. In qualche caso simbolo dei presìdi sono diventate le catene (Palermo e Milano, dove hanno portato la propria solidarietà ed esperienza anche gli operai dell’Innse), in altri le mutande, per illustrare sinteticamente le condizioni economiche in cui sono state precipitate decine di migliaia di famiglie.
Ma non viene sottolineato solo l’aspetto occupazionale. L’espulsione di oltre 42.000 docenti e 15.000 Ata, infatti, non è dovuta a una diminuzione delle iscrizioni, ma al combinato disposto di diverse linee di intervento accomunate dall’unico scopo ufficiale del «risparmio». Quello non dichiarato, ci spiegano, è «la distruzione della scuola pubblica per favorire quella privata».
Come fanno? Semplice: a) si riducono gli orari di lezione; b) si «abilitano» i docenti a insegnare più materie; c) si aumenta il numero degli studenti per classe (fino a 33-34, violando ogni buona pratica in materia di didattica e sicurezza); d) imponendo il «maestro unico» alle elementari.
A fronte di un problema sociale e didattico enorme, il governo prova a dividere il fronte proponendo i «contratti di disponibilità», una sorta di ammortizzatore sociale vincolato però alla totale soggezione individuale del precario. Stamattina, al ministero dell’istruzione, si terrà un «tavolo tecnico» con alcuni sindacati per vedere di concretizzare questa misura. Fuori, su viale Trastevere, i coordinamenti dei precari e i sindacati aderenti al «patto di base» (Cobas, RdB-Cub e Sdl) terranno un sit-in per chiedere invece la «stabilizzazione» progressiva delle centinaia di migliaia di precari che da molti anni sono la vera stampella su cui regge il normale funzionamento della scuola pubblica.

Immigrati, sangue e torture nelle carceri Libiche


Adesso abbiamo le prove. Sono quindici foto in bassa definizione. Scattate con un telefono cellulare e sfuggite alla censura della polizia libica con la velocità di un mms. Ritraggono uomini feriti da armi di taglio. Sono cittadini somali detenuti nel carcere di Ganfuda, a Bengasi, arrestati lungo la rotta che dal deserto libico porta dritto a Lampedusa. Si vedono le cicatrici sulle braccia, le ferite ancora aperte sulle gambe, le garze sulla schiena, e i tagli sulla testa. I vestiti sono ancora macchiati di sangue. E dire che lo scorso 11 agosto, quando il sito in lingua somala Shabelle aveva parlato per primo di una strage commessa dalla polizia libica a Bengasi, l’ambasciatore libico a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur, aveva prontamente smentito la notizia. Stavolta, smentire queste foto sarà un po’ più difficile. A pubblicarle per primo sulla rete è stato il sito Shabelle. E oggi l’osservatorio Fortress Europe le rilancia in Italia. Secondo un testimone oculare, con cui abbiamo parlato telefonicamente, ma di cui non possiamo svelare l’identità per motivi di sicurezza, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali, ma anche eritrei. Nessuno di loro è stato ricoverato in ospedale. Sono ancora rinchiusi nelle celle del campo di detenzione. A venti giorni dalla rivolta. Tutto è scoppiato la sera del 9 agosto, quando 300 detenuti, in maggioranza somali, hanno assaltato il cancello, forzando il cordone di polizia, per fuggire. La repressione degli agenti libici è stata durissima. Armati di manganelli e coltelli hanno affrontato i rivoltosi menando alla cieca. Alla fine degli scontri i morti sono stati sei. Ma il numero delle vittime potrebbe essere destinato a salire: ancora non si conosce la sorte di un’altra decina di somali che mancano all’appello.Il campo di Ganfuda si trova a una decina di chilometri da Bengasi. i detenuti sono circa 500 in maggior parte somali, poi c’è un gruppo di eritrei e alcuni nigeriani e maliani. Sono tutti stati arrestati nella regione di Ijdabiyah e Benghazi, durante le retate in città. L’accusa è di essere potenziali candidati alla traversata del Mediterraneo. Molti di loro sono dietro le sbarre da oltre sei mesi. C’è chi è dentro da un anno. Nessuno è mai stato processato. Ci sono persone colpite dalla scabbia e da malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Le condizioni di detenzione sono pessime. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua. Dormono per terra. E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia. Sono esattamente le stesse condizioni di detenzione riferite dai migranti che, respinti dall’Italia, sono stati reclusi in campi quali Tuaisha, Zlitan e Misratah, la "Misurata" della nostra epoca coloniale. Sulla vicenda, i deputati radicali hanno depositata lo scorso 18 agosto un’interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri, chiedendo se l’Italia «non ritenga essenziale, anche alla luce e in attesa della verifica dei fatti sopraesposti, garantire che i richiedenti asilo di nazionalità somala non siano più respinti in Libia». Probabilmente la risposta all’interrogazione tarderà a venire. Ma nella realtà dei fatti una risposta c’è già. E il respingimento dei 75 somali di ieri ne è la triste conferma. Siamo finalmente riusciti a parlare telefonicamente con uno di loro. A bordo erano tutti somali, ci ha detto. E avevano chiesto ai militari italiani di non riportarli indietro, perché volevano chiedere asilo. Inutile. In questo momento, mentre voi leggete, si trovano nel centro di detenzione di Zuwarah. Da quando sono sbarcati, ieri alle 13, non hanno ancora ricevuto niente da mangiare. Né hanno potuto incontrare gli operatori dell’Alto commissariato dell’Onu di Tripoli. Li hanno rinchiusi in un’unica cella, tutti e 75, comprese le donne e i bambini. Non sanno quale sarà la loro sorte. Ma nessuno si azzardi a criticare l’Italia per la politica dei respingimenti o per l’accordo con la Libia. Tanto meno l’Unione europea e i suoi portavoce...
da L'Unità

Sicurezza, non ronde


Sembra essere diventato un dato acquisito, semplice senso comune: un teorema poggiato su tre certezze, che gli italiani chiedano più sicurezza, che la criminalità aumenti, che strade e case siano meno sicure. Corollario di questo teorema: meno immigrati, meno reati. Soltanto il primo di questi elementi è vero: la questione della criminalità è salita fortemente nelle preoccupazioni degli italiani. Ma non sono veri nè il secondo nè il terzo elemento del teorema, nè il corollario.

Forti dei dati statistici e delle ricerche sociologiche, che indicano come la questione sicurezza in Italia sia certo complessa, ma non banalizzabile secondo gli slogan dell’emergenza, alcuni di noi hanno cercato di mettere un argine alla dilagante “paranoia securitaria”, e di denunciare una campagna mediatica, finalizzata a creare una lista di priorità favorevole alla vittoria elettorale della destra.

Siamo stati zittiti con fastidio, anche da molte voci del centrosinistra: “basta con la sociologia”, ci è stato detto, come se lo studio dei fenomeni sociali non fosse base indispensabile per le scelte politiche serie; con “realismo”, ci è stato spiegato che non importano le cause, quella è roba complicata, ma conta l’insicurezza “percepita”, e i politici devono dare risposte alle ansie e alle percezioni. Tale argomento è un mix di cinismo e di demagogia: è l’idea di una politica che non dà spiegazioni, analisi, soluzioni, ma solo risposte mediatiche e apparenti, annunci rassicuranti, insomma, spara cavolate. Chi fissa l’agenda, ha già mezza vittoria in pugno: e chi lascia che l’avversario la fissi, ha già perso. La rincorsa ai temi della “sicurezza”, senza neppure discutere le modalità con cui la destra li ha posti in agenda, ha spesso caratterizzato l’azione recente del partito democratico. Il risultato è stata un’assoluta subalternità alla destra stessa da parte del centrosinistra.

Ha vinto così una campagna stampa fatta di esaltazione di certi episodi di criminalità, e di silenzio su altri; sottolineatura di reati e persino di banali incidenti provocati da immigrati, silenzio e sottovalutazione di altre notizie, a cominciare dai reati di cui gli immigrati sono vittime. Lo zingaro e il clandestino come capri espiatori: prime pagine per immaginari rapimenti di bambini da parte degli zingari, mezze reticenti righe in cronaca per i pedofili italiani beccati a insidiare i bambini rom persi nello squallore delle baracche. Nessuna diffusione di dati seri, che indicassero la verità: che i crimini gravi sono in costante calo da anni, quelli di cosiddetta microcriminalità salgono e scendono, secondo logiche complesse. In disuso il buon senso: quello che ci dice che i crimini hanno cause, economiche e sociali, e non sono, sui grandi numeri, frutto di istintiva vocazione al crimine di gruppi o etnie, o dell’invidia dei tristi verso il benessere dei buoni.

In verità, le necessarie analisi sui dati ci dicono, per esempio, che negli anni scorsi all’incirca l’80% della spesa destinata all’immigrazione è stata finalizzata alla repressione (contrasto delle entrate illegali, ma soprattutto espulsioni) e solo nel 20% destinato all’integrazione. Le risorse per azioni di repressione sono quindi al massimo: con un continuo inseguimento di una lepre irraggiungibile. Nessuna azione repressiva potrà davvero arginare l’ampio fenomeno della clandestinità, nè garantire una sicurezza continua e quotidiana. Con tipico cinismo, se l’è lasciato sfuggire lo stesso Berlusconi, quando ha dichiarato che non si può mettere una guardia a ogni lampione per proteggere le donne a rischio di stupro. E infatti, quella campagna che ha suscitato la “paranoia securitaria” adesso viene messa nel cassetto, e Maroni ha annunciato, questo Ferragosto, la fine della terribile emergenza, e la diminuzione dei reati, a cominciare, ha detto fiero, dagli omicidi. Ma gli omicidi sono in trend discendente da decenni, e insomma come si sono spaventati gli italiani, ora si rimboccano loro le coperte.

Scompaiono così dal radar anche le ragioni vere, dell’insicurezza italiana: che è fatta della solitudine di anziani e donne sole, che si sentono più deboli in città dove è scomparsa la rete familiare e di vicinato; del reddito precario, che spinge alcuni agli espedienti e mette la maggioranza onesta in condizione tali che anche il furto di un motorino diventa un dramma familiare; di un cambiamento di paesaggio urbano sempre più concepito a misura di chi possiede l’auto, mentre la carenza di servizi pubblici rende i più poveri isolati. Della formazione di nuovi ghetti, magari non così pericolosi da attraversare, ma che segnano città divise, non omogenee e non solidali.

Mi accorgo di non aver parlato della nostra campagna, che chiede, molto semplicemente, che le risorse di ordine pubblico siano date alla polizia e ai carabinieri, ai vigili urbani, non a folcloristiche ronde. Ma in fondo è una proposta di tale evidenza, che c’è poco da dire: oggi, mentre si tagliano i fondi alle volanti, si fa clientelismo spicciolo con associazioni di militanti leghisti o di destra, squalificate e ridicole. Nella meschinità di questa destra, c’è anche questo: le ronde non sono neppure un piano di destabilizzazione dello Stato, ma solo un modo per dare qualche soldo a parenti e portatori di voti.

di Luca Cefisi


mercoledì 2 settembre 2009

Il Brasile scopre giacimenti immensi di petrolio


Il Brasile sta scoprendo immensi giacimenti di petrolio. Sono così importanti che potrebbero portare il paese al quinto posto al mondo per riserve e da far slittare in secondo piano i biocombustibili che solo fino a un paio d’anni fa erano una priorità per la politica energetica nazionale. Nasce così il Brasile saudita, una nuova grande potenza petrolifera tanto che per il presidente Lula, che ne ha parlato ieri alla nazione, i risultati delle introspezioni petrolifere sono così importanti da rappresentare “un nuovo giorno dell’indipendenza nazionale” dove dovrà essere lo Stato a controllare queste risorse.Da due anni il mare brasiliano non smette di rivelare sorprese. Al sud del paese, sotto uno spesso strato di sale che in qualche punto arriva a 2.000 metri e a 7.000 metri di profondità sotto l’Oceano, in una fascia di 800 km quadrati al largo degli stati di Espíritu Santo e Santa Catarina, si trovano giacimenti immensi. Così grandi da moltiplicare fino a sette volte le riserve brasiliane facendole passare da 14 a oltre 90 miliardi di barili trasformando il paese in una potenza petrolifera di prim’ordine, forse la quinta per riserve dopo Arabia Saudita, Iran, Iraq e Kuwait, e su livelli paragonabili a Emirati Arabi, Russia e Venezuela.È una scoperta che appare così importante da cambiare completamente il futuro non solo energetico del paese, risvegliare appetiti e pericoli, ma soprattutto speranze. E così ieri, lunedì, il presidente Lula ha preso la parola aprendo le danze che dovrebbero portare in tempi brevi ad una legge che nelle intenzioni del governo attribuisca allo Stato il pieno controllo sul petrolio e ridistribuisca le enormi ricchezze in arrivo tra tutti gli stati del paese per far sì che il petrolio sia “una grazia di dio che migliori le condizioni di vita di tutti i brasiliani investendo il ricavato in tre assi fondamentali, educazione, scienza e tecnologia, oltre che nella lotta allo sradicamento della povertà”. Ancora per il presidente “il petrolio può rappresentare una nuova rivoluzione industriale dove il Brasile non vuole esportare greggio ma convertirsi in una delle più importanti potenze petrolchimiche del pianeta”. Un’alba di un nuovo giorno per il Brasile per un presidente che getta il petrolio sul piatto della campagna elettorale per designare chi gli succederà. Lula vuol fare apparire chiaro che solo la continuità del governo del PT (partito dei lavoratori) che candida una donna, Dilma Rousseff, può garantire un effettivo progresso redistributivo contro i molti vampiri. Tra questi vi sono i governatori degli stati al largo dei quali il petrolio si trova, che non accettano di dividere le ricchezze e quelli che il presidente ha definito “gli adoratori del dio mercato”, terrorizzati dal fatto che il petrolio possa essere utilizzato in beneficio di tutti i brasiliani.

Die Linke, la "sinistra radicale" che in Germania ha il 20% dei consensi


Uno spettro si aggira per l'Europa, questa volta il fantasma ha le fattezze duplici di Gregor Gysi e Oskar Lafontaine i leader della Linke, la formazione della cosiddetta “sinistra radicale” tedesca nata dall'unione dei transfughi dell'Spd riformista e dagli eredi della Sed (il partito comunista della Gemania est).
Domenica scorsa infatti si è votato in Germania per le elezioni regionali in tre dei sedici Stati della Repubblica federale (Sassonia e Turingia all'Est, Saarland all'ovest) e per le comunali nel Nordreno-Westfalia. I risultati hanno visto un forte calo della Cdu, il Partito cristiano democratico del cancelliere Angela Merkel che perde in Sassonia, Turingia e nella Saar, una sostanziale tenuta dell'Spd e appunto una spettacolare affermazione della Linke che ha raggiunto il 19,5% dei consensi:
In Turingia la Cdu ottiene il 32,5% dei voti (-10,5%); secondo partito è la Linke col 26% (-0,1%), terza la Spd, col 18,5% (+4%); seguono i Liberali della Fdp con l'8% (+4,4%) e i Verdi, col 5,5% (+1%).
In Saarland, invece, la Cdu crolla al 34,5% (-13%), mentre la Spd scende al 25% (-5,8%). Exploit della Linke, che, trainata dal suo candidato governatore Oskar Lafontaine, sale al 21% (+18,7%). I Liberali (Fdp) sono dati al 9,5% (+4,3%), i Verdi il 5,5% (-0,1%).
In Sassonia, infine, la Cdu riesce a contenere le perdite, ottenendo il 41% delle preferenze (-0,1%), la Linke è il secondo partito col 20,5% (-3,1%), la Spd è al 10% (+0,2%), i Liberali (Fdp) viaggiano intorno al 10,5% (+4,6%), mentre i Verdi sono dati al 6% (+0,9%).
Ma al di là del dato numerico, è quello politico ad assumere più valore, dopo 20 anni dalla caduta del muro potrebbe essere possibile anche a livello federale una maggioranza di governo che comprende una formazione composta da comunisti, la Linke infatti è stata definitivamente sdoganata e una sua alleanza con i socialdemocratici non appare impossibile soprattutto se la Merkel non riuscirà a mettere in campo un accordo con i Liberali che finora non ha portato grossi vantaggi.
Tutti gli scenari, a causa dell'alto grado di indecisione degli elettori rilevato da tutti i sondaggi, quindi diventano sorprendentemente possibili per le prossime elezioni politiche: maggioranza giallo-nera (liberali e Cdu), una riedizione della Grosse Koalition tra la Merkel e l'Spd oppure un governo di sinistra con social democratici, verdi e Linke.
In quest'ultimo caso l'instabilità potrebbe essere la caratteristica principale vista la differenza tra i partiti su alcuni temi fondamentali come Ue, Nato, Afghanistan, Iran, politica economica. Ma l'affermazione della Linke ha assunto un significato particolare che potrebbe travalicare le tradizionali differenze di schieramento, la prova è data dal fatto che la sinistra è cresciuta esponenzialmente, non solo nelle tradizionali roccaforti dove risiedono i ceti sociali più poveri, ma soprattutto in due regioni come la Turingia e la Sassonia che dopo la riunificazione sono tornati i più ricchi, con una diffusa industria esportatrice ad alta tecnologia, e dove ceti medi e classe operaia ben pagata sono fasce significative della società.
Qualche grattacapo anche per socialdemocratici. Nel voto di domenica hanno sofferto non poco del buon andamento della Linke di Lafontaine. L'obiettivo dichiarato del partito socialdemocratico, staccato nei sondaggi di almeno 12 punti dalla Cdu, è ora quello di evitare una coalizione tra la Cdu e i liberali. I tedeschi non la vogliono, è il messaggio su cui insiste il candidato cancelliere Frank-Walter Steinmeier.Le opzioni in mano a Steinmeier per restare al governo non sono molte: i liberali puntano sulla Cdu, i Verdi sono troppo deboli per un'alleanza a due con la Spd e oggi il leader socialdemocratico Franz Muentefering è tornato a escludere un accordo sul piano nazionale con la Linke di Oskar Lafontaine. Quanto meno in Turingia e in Saarland la Spd potrebbe dar vita per la prima volta a un governo a tre con i Verdi e la Linke. Una costellazione che Lafontaine (il vero trionfatore del voto di domenica, visto che grazie a lui la Linke in Saarland è salita del 19%) e il suo collega Gregor Gysi hanno scartato a livello nazionale.

martedì 1 settembre 2009

Berlusconi contro la commissione UE

"Non daremo più il nostro voto, bloccando di fatto il funzionamento " dell'Unione europea e "chiederemo il dimissionamento dei commissari" se nell'Ue continueranno a parlare i portavoce anziché il presidente della Commissione. Lo ha detto il presiedente del Consiglio Silvio Berlusconi, arrivando a Danzica, a proposito della richiesta di chiarimenti di Bruxelles all'Italia in tema di immigrazione. "Sono sorpreso, davvero sorpreso, perché sono giorni che stiamo dicendo la Commissione non sta criticando nessuno stato Ue" sulla gestione dell'immigrazione. Così Dennis Abbott, uno dei portavoce della Commissione Ue, ha risposto a chi gli ha riferito della presa di posizione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro i portavoce della Commissione Ue. "Se mi viene rivolta una domanda io rispondo sulla base di chiare istruzioni che ricevo dall'ufficio del vicepresidente della Commissione Ue Jacques Barrot", ha osservato Abbott, sottolineando che proprio nel briefing con la stampa di oggi ha sottolineato come la richiesta di informazioni, in questo caso a Italia e Malta, sia una procedura normale. "La commissione Ue non sta in nessun modo criticando l'Italia", ma anzi cerca di sostenere l'Italia e tutti gli stati Ue sottoposti alle pressioni migratorie, ha sottolineato Abbott."Se chiediamo informazioni questo non rappresenta una critica". E' quanto ha sottolineando il portavoce della Commissione Ue Johannes Laitenberger a chi gli riferiva la presa di posizione del premier Silvio Berlusconi contro i portavoce dell' esecutivo europeo. "Non ho visto questi commenti, ma quello che dico è che sull'argomento dell'immigrazione così come su altri temi lavoriamo con l'Italia in modo obiettivo e corretto", ha osservato Laitengerber.Nello staff del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, impegnato nelle cerimonie per i settant'anni dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale a Danzica, si esprime "soddisfazione" per le dichiarazioni rese da Laitenberger, che ha "precisato di non aver mai criticato l'Italia". Per questo, si sottolinea nello staff del premier, "qualsiasi altra interpretazione è da considerarsi frutto di strumentalizzazioni politiche a fini interni"."Berlusconi deve rassegnarsi, non può controllare la Commissione europea che non funziona secondo le sue personali regole". Lo dice Sandro Gozi, capogruppo del Pd nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio, il quale si dice "sconcertato dall'arroganza del presidente del Consiglio italiano nei confronti delle istituzioni europee alle quali vorrebbe imporre un bavaglio, secondo una modalità che in Italia conosciamo bene".

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L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.

Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.

Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.

Franco Cordero
Stefano Rodotà
Gustavo Zagrebelsky



Questo l'appello dei tre giuristi in difesa di "Repubblica" e della libertà di stampa in Italia, per sostenere l'appello vai all'indirizzo qui sotto.